
Addio alla leggenda del pugilato italiano. Di Pino Farinotti.
di Pino Farinotti
Sembra che in queste ultime settimane io debba evocare Jack London con un’analogia: il richiamo dello sport. Dopo la Milano Sanremo, raccontando il Giro d’Italia scrivevo che da cinquant’anni la mia prima lettura quotidiana è la Gazzetta dello sport. Conosco quella disciplina. Stavo guardando la cronometro Lucca-Pisa del Giro quando ho appreso che Nino Benvenuti era morto. Anche lui conosco bene, anche se non l’ho mai incontrato.
A una cena al ristorante della Madonna a Pavia conobbi Gianni Brera, che era un buon cinefilo. Mi chiese quali fossero i cinque titoli di una classifica ideale. Glieli dissi –non serve che li ripeta- e gli domandai a mia volta di dirmi i cinque campioni assoluti del Novecento. Non ci pensò un secondo. “Sono sei, Meazza, Coppi, Agostini, Mennea, Benvenuti, Tomba.” Dissi: “E il suo prediletto Gigi Riva?” “Diciamo che è il settimo.” E chi mai potrebbe contraddire Brera.
Benvenuti. I titoli più importanti in sintesi.
Campione olimpico dei pesi welter nel 1960, campione mondiale dei pesi superwelter nel 1965, campione europeo dei pesi medi nello stesso anno, campione del mondo dei pesi medi nel 1967. Nel 1968 gli è stato attribuito il prestigioso premio di Fighter of the year - unico italiano ad aver ottenuto quel riconoscimento- oltre a un’infinità di altri. Ero un ragazzino quando divenne Campione olimpico a Roma. Ricordo lui e Cassius Clay, oro dei mediomassimi. Dico che non li ho mai persi di vista. Soprattutto l’italiano. Ancora, il 17 aprile del 1967, rimasi alzato tutta la notte, insieme a mio padre, per sentire la radiocronaca di Paolo Valenti dal Madison Square Garden di New York quando battendo Emile Griffith, Nino divenne campione del mondo dei medi.
Mi sono chiesto: con che pretesto posso scrivere su un sito di cinema il ricordo di un pugile. Poi mi ha soccorso la memoria, e ho ricordato il film di Duccio Tessari Vivi o, preferibilmente, morti, dove il suo partner era Giuliano Gemma, suo coetaneo e commilitone alla Capannelle di Roma. Gemma l’ho conosciuto e gli ho chiesto dell’attore Nino Benvenuti. Sorridendo è stato generoso, e mi ha raccontato un particolare. “Ho dovuto insegnarli come si tirano i pugni nel film. Credeva si essere sul ring, era più veloce dei fotogrammi. Dovette rallentare, molto.” Ho poi visto che Nino aveva partecipato all’episodio di un poliziesco di Stelvio Massi e a un altro di Distretto di Polizia 6. E’ stato commentatore sportivo della Rai ed era iscritto all’albo dei giornalisti.
Per raccontarlo non basterebbe una seconda o una terza parte. Starò alle selezioni e all’essenza.
Ho conosciuto alcuni pugili, anche affermati, non posso farne i nomi, ma era molto difficile comunicare con loro. Non riuscivano a completare una frase, si perdevano nel mezzo del discorso. I pugni avevano lasciato un segno. Ma Nino parlava con una proprietà bella e completa, con ragionamenti anche profondi. I pugni li aveva… sorpassati, e anche il viso non era quello di un ex pugile. E poi il suo appeal, con quel ciuffo biondo che non teneva a bada.
IL Benvenuti sociale. Il decennio di Nino è il Sessanta. Era l’epoca dell’Italia in ripresa, il boom era alle porte ma la nazione era ancora ferita. E’ corretto dire che Nino, a una generazione di distanza, aveva impugnato il testimone di Fausto Coppi.
Era uno dei simboli del Paese che si rialzava da una guerra non ancora dimenticata.
Un modello per gli italiani ancora senza felicità e benessere, che lo sentivano vicino come un amico, affidabile e forte.
Quando fu sconfitto da Monzon, inutile che descriva il dolore di tutti. Ma il dolore si attenuò presto, poi si azzerò, perché il pugile finiva ma ricominciava l’uomo.