Dies Irae

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Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Thorkild Roose, Lisbeth Movin, Anna Svierkier, Kirsten Andreasen, Sigurd Berg.
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Titolo originale Vredens Dag. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 105 min. - Danimarca 1943. MYMONETRO Dies Irae * * * * 1/2 valutazione media: 4,83 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

DIES IRAE: IL CORPO, LO SPAZIO, IL VOLTO, IL MALE

di John Doe


Feedback: 900 | altri commenti e recensioni di John Doe
venerdì 11 marzo 2022

Il maestro del cinema danese e mondiale Carl Theodor Dreyer realizza nel 1943 il capolavoro “Dies Irae”, quarto lungometraggio sonoro del regista di Copenaghen. Il film, girato durante l’occupazione nazista del paese, è tratto dal romanzo“Anne Pedersdotter” del norvegese Hans Wiers-Jenssen e dal dramma teatrale di Karl Gustav Vollmoeller. Ambientata in una piccola comunità della Danimarca del 1623 la pellicola racconta le vicende intorno al nucleo familiare del pastore luterano Absalon Perderssön, sposato con la giovane Anne, la quale si innamorerà del figlio di questi: l’affascinate Martin. Il film inscena un racconto d’impostazione teatrale in cui agli intrighi personali della famiglia si intreccia una narrazione ricca di sospetti e conflitti interiori. Dalla condanna dell’anziana Marte a quella della giovane moglie, dal desiderio represso al tradimento, il film riesce con successo a trasportare su schermo una storia gravida di riflessioni sulla vita, sull’uomo e su Dio. Alla sostanza si accosta la tecnica di Dreyer che raggiunge livelli elevatissimi: la forma del cinema mette in scena se stessa, indaga il limite sottile tra cinema e teatro, tra vita vissuta e vita ripresa. Dai lenti movimenti di macchina che seguono i personaggi ad i frequenti primi piani che inquadrano ed incorniciano i volti, Dreyer riesce a raccontare una storia di intrighi ed intime passioni, di conflitti spirituali, di potere e seduzione. Il primo piano assume nel cinema di Dreyer un ruolo centrale, il volto diviene lo spazio significante, il vettore emotivo fondamentale (similmente a Bergman), la confessione obbligata dell’animo; la macchina si muove sui volti, li mischia e li isola, la luce li scandisce e li oscura, gli occhi con i tratti somatici esprimono l’interiorità dei personaggi ed anticipano la comunicazione verbale (i colori organizzano visibilmente conflitti interiori). Lo sguardo ed il volto si automizzano dalla parola, divengono espressione del conflitto interiore ed evidenza formale del procedimento comunicativo. Si sviluppa nel corso del ‘900 tutta una corrente filosofica legata al volto (quella di Emmanuel Lèvinas ad esempio) e che trova nel cinema il proprio strumento assoluto e desiderato, riscontra nelle potenzialità espressive della forma cinematografica il mezzo per il fine. Il volto diviene quello del conosciuto e dell’estraneo, esprime una riflessione sull’uomo e sulla trascendenza, fonda un rapporto con lo spazio e con i corpi (il primo piano interrompe e cancella la spazialità). In Dreyer l’uomo viene portato alla luce, ma con esso vengono riscoperti anche i suoi più reconditi segreti, le sue più profonde insicurezze e ossessioni, il suo bene morale ed il suo male incarnato. Il filosofo francese Gilles Deleuze ne “L’immagine-movimento” del 1983 ci parla di come, in Dreyer, un maggior approfondimento dei personaggi determini un loro necessario annullamento, fornendogli rilevanza espressiva grazie all’incorniciamento dei volti, scavandone nell’anima e sondandone le più intime problematiche interiori ci si rende conto di come questi perdano progressivamente spessore, umanità, spirito. Anche i corpi si tramutano progressivamente in pure ombre, la luce diventa soffusa e con l’indistinto i personaggi si ritrovano in loro stessi, si ritrovano solo nel loro tutto, il quale è divenuto paradossalmente il loro nulla. “Dies Irae”, che prende avvio e si chiude con la conosciuta composizione poetica medievale attribuita a Tommaso da Celano (formula cantata durante il rogo di una strega), costituisce una vera e propria rivoluzione della forma, in cui si costruisce un dialogo particolare tra i corpi e gli spazi che questi occupano e sperimentano. Il film è un film quasi completamente d’interni che annulla lo spazio che crea, gli interni della casa (che pare infinita) sono vergini, spogli, sulle pareti si proiettano le ombre dei corpi e diviene rilevante in questo senso la questione dell’incorniciamento, del limite che inquadra lo spazio: l’inquadratura isola e determina lo spazio degno di essere impresso su pellicola (che sia un volto o un coro di corpi e oggetti), le finestre come i quadri ricorrono sullo sfondo, incorniciano esterni (che divengono indistinti, pure chiazze), creano una barriera tra i volti e lo spettatore, creano percorsi dialogici di senso con le parole pronunciate e con i corpi che si muovono davanti alla cinepresa (le cornici producono pathos e leggibilità). La macchina si muove non solo inquadrando volti e corpi, ma tra le mura dell’abitazione, lentamente scandisce lo spazio e lo inquadra, lo aumenta e lo distrugge, i piani-sequenza ci riportano una lunga coreografia di corpi e oggetti che si tramutano in manifestazione concreta di drammi interiori. Ricorrono in tal senso nell’opera di Dreyer rimandi alla storia dell’arte (in particolar modo all’arte fiamminga ed ai quadri di Rembrandt e Vermeer), agli interni domestici in cui si inscena la vita, nei quali agisce l’uomo: lo spazio del quotidiano, coi suoi oggetti, in cui si compie il male ordinario. Il film prosegue dunque verso una direzione del particolare, dell’arte antica iconizzante, ma anche dell’arte moderna, verso un’astrazione ed un annullamento del dettaglio (soprattutto negli esterni con la luce del paesaggio indistinto ed i corpi che si fanno sagome nere). Lo spazio esterno all’abitazione è la realtà al di là (oltre quello ignudo della casa), lo spazio dell’oltre benevolo in cui si rifugiano i due amanti Anne e Martin, questo è lo spazio dedicato alla verità, alla natura in accordo con gli esseri che la vivono. E’ tuttavia anche la natura del tradimento, della fuga, della seduzione e verso l’epilogo è la realtà impervia, quando attraversata, sperimentata da altri personaggi (tra cui il vecchio marito Absalon). La natura diviene anch’essa espressione dell’interiorità, con il climax di tensione ed il dramma che si delinea così anche la realtà al di là della finestra si mostra in accordo con gli intenti ed i conflitti dei personaggi. E’ interessante notare proprio come l’unica altra scena all’esterno (oltre quella del temporale e delle fughe romantiche dei due giovani) sia quella del rogo della vecchia “strega”, anche se lo spazio dell’odio in cui si compie il male umano verso la vittima, anche quando questa si convince ella stessa di essere divenuta “strega”, sia circoscritto entro limpide mura, resti un’aerea compresa nello spazio dell’abitabile. Si instaura dunque un rapporto dialogico tra spazi e corpi, ma anche tra spazi interni e spazi esterni, questi si contaminano, si richiamano, ma allo stesso tempo si contraddicono e si distruggono reciprocamente. Lo spazio del dentro, del conosciuto che resta sommerso, è quello della casa (luogo culturale), mentre quello del fuori, dello sconosciuto che resta chiarificato, è quello dell’esterno naturale, dell’oltre occupato e vissuto in accordo e poi in disaccordo con l’uomo. Dal dentro il fuori resta sconosciuto, indistinto, dal fuori il dentro si perde, si offusca e l’opacità delle luci e delle ombre rende evidente un contraccambio reciproco. Lo spazio teatralizzato della casa è il luogo in cui si inscena la vicenda, in cui il sospetto dilaga, in cui il male ha in sé la sua potenza ed il proprio atto, la casa rende evidente l’interno come luogo culturale adibito alla vita: il luogo dove la vita si sperimenta nella sua concretezza, ma si riscopre anche nella sua malignità intrinseca. La bella Anne è l’estranea alla casa, colei che diabolicamente rompe l’equilibrio della famiglia unita, mentre la madre del pastore, la vecchia sospettosa, protettrice e sovrana della casa, condanna la giovane moglie, la accusa dell’uccisione del figlio. L’anziana madre si convince di un male trascendente incarnato nelle vesti della donna-strega (lo stesso padre Abselon aveva interceduto in favore della madre di Anne, sospettata di stregoneria, per evitare sofferenza alla moglie). Si costituisce uno strano rapporto generazionale e di corrispondenze misticistiche che mettono in dubbio anche l’esperienza dello spettatore, una tolta di chiarezza della narrazione che si costruisce tramite criptiche dinamiche spiritistiche, sospetti, condanne che appaiono infondate, illusioni di poteri soprannaturali. La narrazione fa si che lo spettatore empatizzi con il personaggio femminile di Anne, la giovane moglie di Abselon ed amante del figlio Martin, è portato a vedere di buon occhio le azioni della donna, la quale resta capace di amare, ma allo stesso tempo condanna aspramente il vecchio marito (la cui morte gli viene augurata dalla donna e anche, in un certo senso, “provocata”). Il tema del desiderio ritorna con una sua autonomia di significato: il desiderio represso che si tramuta in atto peccaminoso, il desiderio di essere desiderata e di desiderare una vita “altra”. La figura femminile si profila dunque come la parte maligna (principio separatorio e diabolico), vittima e colpevole del male umano, un male che in realtà infestava già silenziosamente lo spazio dell’abitazione. E’ evidente dunque la morale di Dreyer, la morale paradossale dell’uomo che, nel rendersi somigliante a Dio, si tramuta in bestia, il male che si incarna e si esprime nell’uomo medesimo, nel suo spazio, nella sua “casa”. In Dreyer Dio diviene il terzo “comodo”, l’ente concreto a cui attribuire mali e beni di una realtà senza speranza, nella quale l’uomo è gettato privo di ogni sorta di consolazione. Progressivamente l’auto-convincimento di un male diviene male esso stesso, Abselon si sente cambiato, insoddisfatto e tormentato, mentre Anne, alla fine, assume la figura della donna-diavolo, del male incarnato e luciferino. Anne nel finale si rende conto di aver peccato, di aver ucciso Abselon con la sua parola, divenendo ella stessa quel male che gli altri volevano attribuirle. E’ proprio nel finale, in cui la lacrima diventa la trasparenza della verità e riflesso del mezzo che la mostra, che Anne assume la consapevolezza di sé, del suo male e della sua menzogna (la donna è il vettore del pathos, del melodramma). Nell’ultimo frame del lungometraggio, prima dei titoli di coda, appare una croce su uno sfondo neutro (la parete bianca degli interni), dunque il simbolo della passione e del cristianesimo che viene sormontata da un triangolo, andando a costituire una sorta di freccia che punta verso l’altro, alla stesso modo il triangolo posto sulla croce pare quasi schiacciarla sotto di esso. Quello che Dreyer abilmente inserisce alla fine del film, rifacendosi alla simbologia cristiana, sovverte il senso stesso della corrispondenza simbolica, inquadra il simbolo del dolore e dell’abbandono e lo interroga. Dreyer si riferisce ad un Dio ed a un male che esistono ed agiscono unicamente in relazione all’uomo. La malformazione dell’animo umano che si rende evidente nel finale (con il compimento del male assoluto) dimostra ancora una volta la maestria di Dreyer, il quale traspone su schermo un film intimista, sofferto e crudele. Un film che fa della propria forma la propria sostanza e che inquadra un sistema sempre attuale di esistenze svelate, un grido disperato contro il fanatismo e le deviazioni dell’animo che portano con loro morte e sofferenza.

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