goldy
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giovedì 10 settembre 2020
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alle volta meglio essere ciechi
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Il dolore si rispetta, Non lo si usa per dimostrare "quanto bravo sono io, quanta sensibilità mi muove rispetto all'indifferenza dei più". Tre anni di lavoro, grandi mezzi finanziari spesi, rischi sicuramente corsi dalla troupe per restituire una serie di bellissime immagini formalmente perfette ma prive di suggestioni significative. Non si contestualizza, e ve bene, non si adotta un punto di vista e ve bene, non si esprime un pensiero politico e va bene ma così facendo poco se non nulla rimane.
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simone bachini
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martedì 22 settembre 2020
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attraverso interminate notti, l''attesa é speranza
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una macchina da presa, un buon microfono, ed un tempo di ricerca e riflessione. i film così si costruiscono per strada. l'idea all'inizio spinge, poi é la vita a dirigere. é cinema documentario, infatti. l'attesa snervante mi ha ricordato il deserto dei tartari. ma lì il nemico non arrivava. qui, sebbene non si veda chiaramente, é lontano pochi chilometri, presente nei suoni di fondo.
é un film, quindi da vedere assolutamente al cinema, ed é un piacere per gli occhi e uno strazio per il cuore. quelle persone non sono attori, ma fragili presenze in un dramma generale. i confini spesso sono disegnati sulle carte, e prima ancora sulla pelle delle persone.
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una macchina da presa, un buon microfono, ed un tempo di ricerca e riflessione. i film così si costruiscono per strada. l'idea all'inizio spinge, poi é la vita a dirigere. é cinema documentario, infatti. l'attesa snervante mi ha ricordato il deserto dei tartari. ma lì il nemico non arrivava. qui, sebbene non si veda chiaramente, é lontano pochi chilometri, presente nei suoni di fondo.
é un film, quindi da vedere assolutamente al cinema, ed é un piacere per gli occhi e uno strazio per il cuore. quelle persone non sono attori, ma fragili presenze in un dramma generale. i confini spesso sono disegnati sulle carte, e prima ancora sulla pelle delle persone. il ragazzo che attende il cacciatore é una sintesi perfetta, estrema: la sopravvivenza senza bene né male. non c'è giudizio, e anche questo mi piace molto. lo consiglio, e consiglio anche di tenere fuori dalla sala approcci troppo cervellotici.
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loland10
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domenica 13 settembre 2020
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fuochi e orizzonti
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“Notturno” (2020) è il quinto lungometraggio del regista-produttore di Asmara Gianfranco Rosi.
Una produzione a più voci, italiana, francese e tedesca. Con varie partecipazioni e tre anni di lavoro. Fotografia dello stesso Rosi e montaggio di Jacopo Quadri collaboratore fisso del regista.
Notti pericolose e voci di sottofondo, rumori minimi, rumori lontani, spari e venti di fuoco. Un documento-film di grande giro nei paesi del MedioOriente. Un vasto mondo difficile da inquadrare è da raccontare. La prova è farlo vedere con voci di madre, camere da assestare, bimbi e i loro disegni, ragazzi e i loro giri di fatica.
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“Notturno” (2020) è il quinto lungometraggio del regista-produttore di Asmara Gianfranco Rosi.
Una produzione a più voci, italiana, francese e tedesca. Con varie partecipazioni e tre anni di lavoro. Fotografia dello stesso Rosi e montaggio di Jacopo Quadri collaboratore fisso del regista.
Notti pericolose e voci di sottofondo, rumori minimi, rumori lontani, spari e venti di fuoco. Un documento-film di grande giro nei paesi del MedioOriente. Un vasto mondo difficile da inquadrare è da raccontare. La prova è farlo vedere con voci di madre, camere da assestare, bimbi e i loro disegni, ragazzi e i loro giri di fatica.
Ombre e luci, interni e paesaggi, fuochi distanti e rumori di sottofondo, lunghi sguardi e camera da letto, confini invisibili e uomini in arme, teatro in costruzione e paesi in macerie, sguardi spenti e lacrime indesiderate.
Tetro cinema di finzione, statuario mondo rivisto e immagini salienti giocate: docu-film con un marchio, quello del vero nascosto in un verosimile sincero. Certo non si mette la cinepresa a caso, certo non si arriva per avere una storia, certo la sceneggiatura non si può costruire prima; così un racconto è fatto non di compromessi ma di vite riascoltate con metodi veritieri. Può non creare afflato in modo completo. Il documentario oggettivo....è fatto di sola ripresa senza un vero e proprio montaggio. Una successione di eventi. Rosi pensa in grande considerando confini di pesi in lotta da sempre (didascalia iniziale è da considerare), tra Siria, Libano, Kurdistan e Iran.
Teatro in un manicomio; ognuno ha la sua parte, una storia divisa con piccole ambizioni, la memoria da raccontare e l’inveire contro; ecco delle persone quasi senza sennò rendono giustizia alla vita di un popolo; il ‘Cesare non deve morire’ dai Taviani alle menti libere di persone (che vediamo) chiuse. La pazzia dell’uomo abita fuori posto ma è chiusa da intelletto aggrumato di livore. Si deve dire che il frammento riesce bene. Con vera vita.
Un film alla ‘Rosi’: oramai è un marchio di fabbrica quello di non obiettare nulla al reale, di non calcare troppo, edulcorando il minimo e prendendo spunto dalla bellezza di ogni posto. Un confine non visto. Una moto che taglia lo schermo, una piccola barca che si perde nel buio, le acqua intagliate, la natura abbassata e luci in orizzonte appassite. Ecco che quello che è bello come cartolina sancisce la coda di un territorio aspro e pieno di scontri. Il partire dei camion come le galere piene di uomini in arancione, la bandiera issata e il rientro nelle celle. Ecco il confine tra ciò che opprimente si vuole raccontare e il silenzio di ‘saluti blasfemi’ da terre mai tranquille.
Ritmi blandi, silenzi e racconti; il bimbo che parla dell’orrore di fronte ai disegni, la sua voce è il balbettio di ognuno di fronte all’orrore. L’ISIS e ogni forma di violenza. Ecco che i segni dei bambini dicono tutto. Non un racconto giornalistico ma un racconto di corsa con parole ‘balbettanti’ vere e irreali, di orrore e di ansia. Un segno senza movimenti di camera accattivanti. Una lezione per chi guarda. La maestra ascolta e poi si fa da parte.
Notte e giorno, piani fisso e leggere correlate, viste in basso e panorami di valli, strada allagata e camion che passano; rumore di pistoni e pioggia che si attende. Mentre lontano fuochi accesi che svaniscono verso l’alto. È l’orizzonte di un confine labile, inesistente e pieno di passato secolare. Dagli imperi alle guerre di oggi.
Oscuro mondo che conosciamo poco, volti e rughe che non ci sembrano comuni, spazi ristretti e patrie intimorite; si piangono figli, si piange raccontando il vero. Per mostrare emozioni scarne, asciutte, spente e quanto mai amene. Una terra piena di confini. Dagli occhi di ciascuno. Fino al fermo-immagine conclusivo. Niente si è mosso.
Rosi ci mette sempre il suo, non lascia nulla indietro, arriva e ritorna, ci mette attenzione e mai vago.
Regia: lineare, non invasiva, vitale, non piatta.
Voto: 7½ (***½) -cinema mesto-
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fabrizio funto
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mercoledì 23 settembre 2020
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l''iper-realismo crepuscolare di francesco rosi
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NOTTURNO
(Gianfranco Rosi)
di
Fabrizio Funtò
Al terzo colpo di grancassa che Gianfranco Rosi batte con questo suo Notturno (forse lo avrei chiamato “Crepuscolo”) — dopo Sacro Gra e Fuocoammare, urge una riflessione sull’innovazione che questo autore sta apportando al linguaggio cinematografico e che ci sta proponendo quasi sperimentalmente. E che sta funzionando, vista l’accoglienza.
Non possiamo più dire che si tratti cioè di un caso, né che sia scevro da predeterminazione. Tre indizi, anche qui, fanno una prova.
Urge una riflessione su tre livelli. Primo, sul significato diretto e simbolico che mostra nei suoi lungometraggi.
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NOTTURNO
(Gianfranco Rosi)
di
Fabrizio Funtò
Al terzo colpo di grancassa che Gianfranco Rosi batte con questo suo Notturno (forse lo avrei chiamato “Crepuscolo”) — dopo Sacro Gra e Fuocoammare, urge una riflessione sull’innovazione che questo autore sta apportando al linguaggio cinematografico e che ci sta proponendo quasi sperimentalmente. E che sta funzionando, vista l’accoglienza.
Non possiamo più dire che si tratti cioè di un caso, né che sia scevro da predeterminazione. Tre indizi, anche qui, fanno una prova.
Urge una riflessione su tre livelli. Primo, sul significato diretto e simbolico che mostra nei suoi lungometraggi. Secondo, sul linguaggio cinematografico che ha adottato. Ed infine sul senso di questa operazione molto sofisticata e complessa. Ma muoviamoci con ordine.
Cosa è Notturno?
Difficile a dirsi. È una sorta di diario dell’esistenza incrociato, dove due o tre scenari specifici di un mondo estremo, che si incontra nella tarda Mesopotamia dove Rosi si è spostato, convergono in una rappresentazione drammatica e, al tempo stesso, “insensata”. Una umanità arcaica, che sopravvive presidiando i territori perennemente in guerra, e al contempo tenta di vivere briciole di esistenza, gocce della rugiada di una vita che sembra averla abbandonata per sempre.
A far da sfondo c’è l’Isis, che nel parlato del film si riconosce come “Daesh”. È stato per anni il terrore dell’occidente. Nel suo percorso ai limiti del mondo, Rosi si è spostato dalla periferia diroccata di una Roma in disarmo (col suo primo lavoro), alle tragedie fragili ed inevitabili di Lampedusa (nel secondo), per finire ora sulla via della seta, nella sua prima stazione utile, la Siria-Iraq-Libano (chiamiamola quindi neo-Mesopotamia), dove il dramma ISIS diventa cocente, e sempre più consistente. Ci sarebbe da chiedersi se proseguirà questo pellegrinaggio, e fino a dove.
In questo percorso ci sembra di rinvenire una continuità poetica, fin dai suoi primi giri di manovella — per così dire — che si mostra in tutta la sua evidenza: il mondo viaggia a velocità diverse, enormemente diverse, inconciliabilmente diverse — ma compresenti. Questi mondi apparentemente dissimili convivono uno a fianco dell’altro, viaggiano su percorsi paralleli quasi senza toccarsi. E quando lo fanno, stridono, urlano e le grida arrivano fino in cielo.
Ogni società vive questa sconclusionata e rischiosa esistenza. Ma perfino ogni famiglia, ed ogni individuo.
E l’emblema di questa concezione sincretica ed incoerente dell’esistenza è la scena di Notturno in cui si su una strada cittadina, ma in terra battuta, si alternano motociclette con cavalli al galoppo. In entrambi i casi, ci sono dei ragazzi a “montarli”, cavalli reali e cavalli vapore, finché la macchina da presa non si ferma su un ultimo quadrupede, assolutamente tranquillo ed indifferente a tutto ciò che gli accade dietro e intorno, lasciato in sosta nel bel mezzo di un incrocio. Intorno a lui, moderni e costosissimi SUV si sfiorano, Moto e macchine si alternano — anche loro indifferenti alle sorti dell’animale. Indifferenza reciproca, calendari e millenni diversi, che condividono la stessa realtà. Il medioevo convive con la fantascienza e con l’età della pietra, tutto insieme in un mix sconcertante. Come il serpentone di luci del Raccordo anulare di Roma, che passava indifferente sopra un territorio sconosciuto, fatto di punteruoli rossi.
Il mondo delle tecnologie, a velocità spaziale (il mondo delle carrozzate SUV, il mondo dell’esercito americano con i suoi blindati ipertecnologici collegati ai satelliti, il mondo delle televisioni onnipresenti) insieme e contemporaneamente alle distese desolate, alle tende nel fango, ai cacciatori di tordi. In quelle nelle notti disperate, in lontananza, le armi automatiche crepitano chissà dove, chissà perché, picchiettano col loro tossire mortale il magico silenzio stellato.
Tutto questo genera uno sconquasso di vita e di coscienze. Una società sbilenca e sciancata, in perenne attesa di un crollo imminente. Il merito enorme di Rosi è non solo di esibirlo, ma di farlo diventare storia. No, non “una” storia — come nella cinematografia classica — ma proprio: “Storia”.
E qui passiamo subito a ragionare sul suo linguaggio cinematografico.
Gianfranco Rosi rifiuta la “fiction”, la finzione. Costruisce le sue storie — perché assolutamente di storie si tratta — con personaggi reali, veri; che fanno cose reali, vere. Agiscono nella realtà, seguendo ciascuno il proprio demone, senza che Rosi faccia loro lo sgambetto.
Arte e vita si unificano. E questo lo spettatore lo sa, lo sente subito, lo avverte palpabilmente. Qui non si scherza: se qualcosa accade nel film, vuol dire che è accaduto davvero nella realtà. Nell’immaginario cinematografico, se la macchina da presa inquadra “casualmente” un fucile, prima o poi l’azione scenica vedrà quell’arma diventare protagonista. E lo spettatore non vede l’ora che questo accada.
Qui si assiste esattamente al contrario: se appare sulla scena un fucile, o (che so io?) un coltello, o un’ascia, lo spettatore prega iddio perché quell’elemento non entri mai in azione, perché non diventi il protagonista: vorrebbe dire che qualcuno ci sta davvero per rimettere la pelle.
Rosi ha invertito il piano narrativo subliminale e ha bruciato le aspettative del suo pubblico.
Un grande pensatore del secolo scorso, elaborando la teoria che verrà chiamata più tardi “teoria della raffigurazione logica” (o, in inglese, più semplicemente “picture theory”) affermava che nella sua visione del mondo una fatto poteva accadere, oppure non accadere, e tutto il resto sarebbe rimasto uguale. I fatti erano indipendenti e indifferenti uno all’altro. Accadevano, punto. Niente connessione divina, niente grande architetto, niente Provvidenza.
Sembra lo stesso per le scene di Rosi: i fatti che mostra hanno una loro freddezza, una loro indipendenza e una loro intima necessità. Ma è come se fossero le cronache di una altro universo, parallelo al nostro, dove è intervenuta la glaciazione dei sentimenti.
Notturnomostra fortezze abbandonate, caseggiati diroccati, famiglie numerose che sopravvivono a se stesse assiepate, blindati che si muovono in panorami postatomici, campi profughi immersi nel fango, con purissimo neorealismo, famiglie ammassate.
Rosi non ha bisogno di dialoghi. I dialoghi fanno finzione, sono scritti dai dialoghisti. L’autore mostra persone che parlano, che raccontano fatti. Ma non dialogano. Se sono in due, ognuno vive la sua storia, e tutto il resto rimane uguale, inalterato. Anche l’altro. Ognuno deve cavarsela da sé.
Quello stesso filosofo di prima diceva che compito del pensiero non è raccontare, narrare, ma “mostrare”. Ecco, Rosi fa una operazione di verità, ma all’interno di una cornice sempre cinematografica. Mostra un mondo — per così dire — come lui lo ha trovato, e che gli sopravviverà. Un mondo come potrebbe essere visto da un alieno. In cui lui, come esibitore, non è minimamente coinvolto. Neorealismo crepuscolare, appunto.
E tutto sommato ci spinge a non esserlo neppure noi, sebbene apparteniamo alla stessa umanità che ci mostra. O forse ci spinge a fare di tutto per non appartenere a quella umanità, mostrandocela in chiaroscuro. Ci spinge ad evitare ciò che vediamo, e c’è un solo modo per farlo.
Chi vuole narrare — sembra dirci — è come un attore preso a caso da un ospedale psichiatrico, che interpreta una parte che non gli appartiene. No, non sembra: ce lo dice proprio. Narrare è follia.
Non c’è redenzione all’interno delle storie di Rosi. Se ci dovesse essere, c’è nello spettatore, e per sua decisione. Nel film ci sono i fatti. I duri, granitici, inamovibili fatti accuratamente selezionati. Giustapposti uno all’altro, e giustapposti alla vita dello spettatore. Coi loro tempi, con le loro meditazioni, coi loro silenzi. Come se il filo narrativo non si annodasse mai. Come se la trama, accennata qua e là, non si riuscisse a tessere, ma si sfilacciasse ogni volta che l’ordito tenta di ricostruirla.
Ed è questo è il messaggio che ci lancia.
Nella scena più emblematica di Notturno, un bambino balbuziente, forse traumatizzato dalla sua realtà vissuta, è di fronte al muro della sua classe. Attaccati al muro con lo scotch, ci sono i disegni dagli altri bambini, profughi come lui. E il bambino racconta le atrocità perpetrate contro il suo villaggio degli uomini del Daesh. Ma non piange. Indica solo le immagini, e racconta. Con immediatezza, senza enfasi. Riporta dei crimini efferati, orribili, come se parlasse di eventi inevitabili. È successo così. Punto.
A noi piace credere che quel bambino sia una metafora di Rosi stesso, che si trova con gli spezzoni del suo documentario, realizzato in tre anni di permanenza sui limen del Daesh attaccati al muro, come si faceva una volta in moviola. Ma, al posto di strapparsi le vesti e i capelli per i fatti che narra, al posto di spingere all’azione, al posto di effettuare una plateale presa di coscienza — forse anche lui balbettando leggermente — fa come quel piccolo yazidi: punta il suo dito, e “mostra” quello che ha visto. Cioè esattamente quello che accade lì, dove il suo occhio reale (ed il suo occhio cinematografico) sono approdati.
E ci lascia sconcertati.
Già, perché la domanda che Rosi evita di fare sorge impetuosa dentro lo spettatore: ma che senso ha una vita così? Una sopravvivenza nel fango, negli scolii dell’esistenza, nei frammenti di pace lungo il fiume del dramma?
Perché?
A questo interrogativo — sembra la conclusione inappuntabile di Rosi — non può rispondere il cinema.
E c’è una sola risposta possibile.
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fabrizio funto
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mercoledì 23 settembre 2020
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notturno, ovvero iperrealismo crepuscolare.
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Al terzo colpo di grancassa che Gianfranco Rosi batte con questo suo Notturno (forse lo avrei chiamato “Crepuscolo”) — dopo Sacro Gra e Fuocoammare, urge una riflessione sull’innovazione che questo autore sta apportando al linguaggio cinematografico e che ci sta proponendo quasi sperimentalmente. E che sta funzionando, vista l’accoglienza.
Non possiamo più dire che si tratti cioè di un caso, né che sia scevro da predeterminazione. Tre indizi, anche qui, fanno una prova. Urge una riflessione su tre livelli. Primo, sul significato diretto e simbolico che mostra nei suoi lungometraggi. Secondo, sul linguaggio cinematografico che ha adottato. Ed infine sul senso di questa operazione molto sofisticata e complessa.
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Al terzo colpo di grancassa che Gianfranco Rosi batte con questo suo Notturno (forse lo avrei chiamato “Crepuscolo”) — dopo Sacro Gra e Fuocoammare, urge una riflessione sull’innovazione che questo autore sta apportando al linguaggio cinematografico e che ci sta proponendo quasi sperimentalmente. E che sta funzionando, vista l’accoglienza.
Non possiamo più dire che si tratti cioè di un caso, né che sia scevro da predeterminazione. Tre indizi, anche qui, fanno una prova. Urge una riflessione su tre livelli. Primo, sul significato diretto e simbolico che mostra nei suoi lungometraggi. Secondo, sul linguaggio cinematografico che ha adottato. Ed infine sul senso di questa operazione molto sofisticata e complessa. Ma muoviamoci con ordine.
Cosa è Notturno?
Difficile a dirsi. È una sorta di diario dell’esistenza incrociato, dove due o tre scenari specifici di un mondo estremo, che si incontra nella tarda Mesopotamia dove Rosi si è spostato, convergono in una rappresentazione drammatica e, al tempo stesso, “insensata”. Una umanità arcaica, che sopravvive presidiando i territori perennemente in guerra, e al contempo tenta di vivere briciole di esistenza, gocce della rugiada di una vita che sembra averla abbandonata per sempre.
A far da sfondo c’è l’Isis, che nel parlato del film si riconosce come “Daesh”. È stato per anni il terrore dell’occidente. Nel suo percorso ai limiti del mondo, Rosi si è spostato dalla periferia diroccata di una Roma in disarmo (col suo primo lavoro), alle tragedie fragili ed inevitabili di Lampedusa (nel secondo), per finire ora sulla via della seta, nella sua prima stazione utile, la Siria-Iraq-Libano (chiamiamola quindi neo-Mesopotamia), dove il dramma ISIS diventa cocente, e sempre più consistente. Ci sarebbe da chiedersi se proseguirà questo pellegrinaggio, e fino a dove.
In questo percorso ci sembra di rinvenire una continuità poetica, fin dai suoi primi giri di manovella — per così dire — che si mostra in tutta la sua evidenza: il mondo viaggia a velocità diverse, enormemente diverse, inconciliabilmente diverse — ma compresenti. Questi mondi apparentemente dissimili convivono uno a fianco dell’altro, viaggiano su percorsi paralleli quasi senza toccarsi. E quando lo fanno, stridono, urlano e le grida arrivano fino in cielo. Ogni società vive questa sconclusionata e rischiosa esistenza. Ma perfino ogni famiglia, ed ogni individuo.
E l’emblema di questa concezione sincretica ed incoerente dell’esistenza è la scena di Notturno in cui si su una strada cittadina, ma in terra battuta, si alternano motociclette con cavalli al galoppo. In entrambi i casi, ci sono dei ragazzi a “montarli”, cavalli reali e cavalli vapore, finché la macchina da presa non si ferma su un ultimo quadrupede, assolutamente tranquillo ed indifferente a tutto ciò che gli accade dietro e intorno, lasciato in sosta nel bel mezzo di un incrocio. Intorno a lui, moderni e costosissimi SUV si sfiorano, Moto e macchine si alternano — anche loro indifferenti alle sorti dell’animale. Indifferenza reciproca, calendari e millenni diversi, che condividono la stessa realtà. Il medioevo convive con la fantascienza e con l’età della pietra, tutto insieme in un mix sconcertante. Come il serpentone di luci del Raccordo anulare di Roma, che passava indifferente sopra un territorio sconosciuto, fatto di punteruoli rossi. Il mondo delle tecnologie, a velocità spaziale (il mondo delle carrozzate SUV, il mondo dell’esercito americano con i suoi blindati ipertecnologici collegati ai satelliti, il mondo delle televisioni onnipresenti) insieme e contemporaneamente alle distese desolate, alle tende nel fango, ai cacciatori di tordi. In quelle nelle notti disperate, in lontananza, le armi automatiche crepitano chissà dove, chissà perché, picchiettano col loro tossire mortale il magico silenzio stellato.
Tutto questo genera uno sconquasso di vita e di coscienze. Una società sbilenca e sciancata, in perenne attesa di un crollo imminente. Il merito enorme di Rosi è non solo di esibirlo, ma di farlo diventare storia. No, non “una” storia — come nella cinematografia classica — ma proprio: “Storia”.
E qui passiamo subito a ragionare sul suo linguaggio cinematografico.
Gianfranco Rosi rifiuta la “fiction”, la finzione. Costruisce le sue storie — perché assolutamente di storie si tratta — con personaggi reali, veri; che fanno cose reali, vere. Agiscono nella realtà, seguendo ciascuno il proprio demone, senza che Rosi faccia loro lo sgambetto.
Arte e vita si unificano. E questo lo spettatore lo sa, lo sente subito, lo avverte palpabilmente. Qui non si scherza: se qualcosa accade nel film, vuol dire che è accaduto davvero nella realtà. Nell’immaginario cinematografico, se la macchina da presa inquadra “casualmente” un fucile, prima o poi l’azione scenica vedrà quell’arma diventare protagonista. E lo spettatore non vede l’ora che questo accada. Qui si assiste esattamente al contrario: se appare sulla scena un fucile, o (che so io?) un coltello, o un’ascia, lo spettatore prega iddio perché quell’elemento non entri mai in azione, perché non diventi il protagonista: vorrebbe dire che qualcuno ci sta davvero per rimettere la pelle. Rosi ha invertito il piano narrativo subliminale e ha bruciato le aspettative del suo pubblico.
Un grande pensatore del secolo scorso, elaborando la teoria che verrà chiamata più tardi “teoria della raffigurazione logica” (o, in inglese, più semplicemente “picture theory”) affermava che nella sua visione del mondo una fatto poteva accadere, oppure non accadere, e tutto il resto sarebbe rimasto uguale. I fatti erano indipendenti e indifferenti uno all’altro. Accadevano, punto. Niente connessione divina, niente grande architetto, niente Provvidenza.
Sembra lo stesso per le scene di Rosi: i fatti che mostra hanno una loro freddezza, una loro indipendenza e una loro intima necessità. Ma è come se fossero le cronache di una altro universo, parallelo al nostro, dove è intervenuta la glaciazione dei sentimenti.
Notturno mostra fortezze abbandonate, caseggiati diroccati, famiglie numerose che sopravvivono a se stesse assiepate, blindati che si muovono in panorami postatomici, campi profughi immersi nel fango, con purissimo neorealismo, famiglie ammassate.
Rosi non ha bisogno di dialoghi. I dialoghi fanno finzione, sono scritti dai dialoghisti. L’autore mostra persone che parlano, che raccontano fatti. Ma non dialogano. Se sono in due, ognuno vive la sua storia, e tutto il resto rimane uguale, inalterato. Anche l’altro. Ognuno deve cavarsela da sé.
Quello stesso filosofo di prima diceva che compito del pensiero non è raccontare, narrare, ma “mostrare”. Ecco, Rosi fa una operazione di verità, ma all’interno di una cornice sempre cinematografica. Mostra un mondo — per così dire — come lui lo ha trovato, e che gli sopravviverà. Un mondo come potrebbe essere visto da un alieno. In cui lui, come esibitore, non è minimamente coinvolto. Neorealismo o iperrealismo crepuscolare, appunto.
E tutto sommato ci spinge a non esserlo neppure noi, sebbene apparteniamo alla stessa umanità che ci mostra. O forse ci spinge a fare di tutto per non appartenere a quella umanità, mostrandocela in chiaroscuro. Ci spinge ad evitare ciò che vediamo, e c’è un solo modo per farlo. Chi vuole narrare — sembra dirci — è come un attore preso a caso da un ospedale psichiatrico, che interpreta una parte che non gli appartiene. No, non sembra: ce lo dice proprio. Narrare è follia.
Non c’è redenzione all’interno delle storie di Rosi. Se ci dovesse essere, c’è nello spettatore, e per sua decisione. Nel film ci sono i fatti. I duri, granitici, inamovibili fatti accuratamente selezionati. Giustapposti uno all’altro, e giustapposti alla vita dello spettatore. Coi loro tempi, con le loro meditazioni, coi loro silenzi. Come se il filo narrativo non si annodasse mai. Come se la trama, accennata qua e là, non si riuscisse a tessere, ma si sfilacciasse ogni volta che l’ordito tenta di ricostruirla.
Ed è questo è il messaggio che ci lancia.
Nella scena più emblematica di Notturno, un bambino balbuziente, forse traumatizzato dalla sua realtà vissuta, è di fronte al muro della sua classe. Attaccati al muro con lo scotch, ci sono i disegni dagli altri bambini, profughi come lui. E il bambino racconta le atrocità perpetrate contro il suo villaggio degli uomini del Daesh. Ma non piange. Indica solo le immagini, e racconta. Con immediatezza, senza enfasi. Riporta dei crimini efferati, orribili, come se parlasse di eventi inevitabili. È successo così. Punto.
A noi piace credere che quel bambino sia una metafora di Rosi stesso, che si trova con gli spezzoni del suo documentario, realizzato in tre anni di permanenza sui limen del Daesh attaccati al muro, come si faceva una volta in moviola. Ma, al posto di strapparsi le vesti e i capelli per i fatti che narra, al posto di spingere all’azione, al posto di effettuare una plateale presa di coscienza — forse anche lui balbettando leggermente — fa come quel piccolo yazidi: punta il suo dito, e “mostra” quello che ha visto. Cioè esattamente quello che accade lì, dove il suo occhio reale (ed il suo occhio cinematografico) sono approdati. E ci lascia sconcertati.
Già, perché la domanda che Rosi evita di fare sorge impetuosa dentro lo spettatore: ma che senso ha una vita così? Una sopravvivenza nel fango, negli scolii dell’esistenza, nei frammenti di pace lungo il fiume del dramma?
Perché?
A questo interrogativo — sembra la conclusione inappuntabile di Rosi — non può rispondere il cinema. E c’è una sola risposta possibile.
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fabiobo
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mercoledì 23 settembre 2020
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notturno, un film di luce sullo splendore del vero
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Quattro anni dopo la caduta dello stato islamico di Daesh, lungo i precari confini tra Iraq, Siria, Kurdistan e Libano: una regione che, nei secoli, è sempre stata un’illusione della geopolitica e una impostura della geostoria.
Sono le terre devastate dal Califfato e dalle scaltre contese tra superpotenze, abitate da genti, la cui dignità è stata calpestata frantumandosi nel caos, sopraffatta dal ricordo delle atrocità patite, inabissata in una paura buia e cupa come la notte.
Una notte perenne, livida e bluastra, nella quale gli spietati guerriglieri del Dio vendicatore rappresentano ancora un temibile nemico. Un nemico diventato spettrale, sempre in agguato, invisibile.
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Quattro anni dopo la caduta dello stato islamico di Daesh, lungo i precari confini tra Iraq, Siria, Kurdistan e Libano: una regione che, nei secoli, è sempre stata un’illusione della geopolitica e una impostura della geostoria.
Sono le terre devastate dal Califfato e dalle scaltre contese tra superpotenze, abitate da genti, la cui dignità è stata calpestata frantumandosi nel caos, sopraffatta dal ricordo delle atrocità patite, inabissata in una paura buia e cupa come la notte.
Una notte perenne, livida e bluastra, nella quale gli spietati guerriglieri del Dio vendicatore rappresentano ancora un temibile nemico. Un nemico diventato spettrale, sempre in agguato, invisibile. Quei carnefici, ora sagome incorporee, sono una perenne ossessione che corrode anime e corpi dei sopravvissuti e delle vittime. Quello che fu teatro di guerra è ora dimora di un’attesa senza fine, regno d’un apocalisse latente.
Un tempo senza tempo dove tiranneggia il panico. Uomini e donne, vecchi e bambini, vedove e orfani, guerrieri e guerriere Peshmerga, sfollati abbandonati nei campi profughi, detenuti seviziati nelle carceri. Etnie e fedi si prostrano al cospetto del destino, tenacemente avvinghiati al sogno di una intima redenzione.
Il passato non si può revocare, ma solo dolorosamente rievocare: sevizie, torture, esecuzioni, l’infame genocidio dei popoli. Circospetto e funesto, il presente scorre ieratico nella cupa solennità delle offese subite. Una madre inerme piange nell’ascoltare i messaggi vocali d’una figlia in pericolo, il barcaiolo si destreggia tra paludi che paiono l’Ade, i disegni raccapriccianti chiazzati di rosso, come piccoli “Guernica”, realizzati dai bambini che furono testimoni dell’orrore, le truppe dei partigiani in marcia, la minoranza vessata della comunità yazida, soldati e soldatesse che presidiano il nulla davanti a una tazza di tè, l’esistenza diroccata di paesi fantasma dove sfrecciano cavalli al galoppo e scooter scalmanati, trincee come cimiteri, paesaggi lunari, il canto del silenzio che assorda il deserto, i cieli rigonfi di nubi immote e caliginose.
Se in guerra la verità è la prima vittima, è nel “dopoguerra” che la condizione umana si fa menzogna, obbrobrio di sé stessa. Tuttavia, al di là della dannazione e, ben oltre ogni infamia, esistere è resistere.
Minute feritoie di luce interiore, la ripetitività salvifica di trascurabili gesti, il raccoglimento d’una preghiera, l’accudire l’umile quotidianità, lo sguardo intenso di un adolescente. Seppure spossata, la sacralità del vivere riaccende la fede e infonde un barlume di speranza.
Non si può toccare l’alba, se non si sono percorsi i sentieri della notte, scriveva Khahlil Gibran.
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zio mau
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mercoledì 23 settembre 2020
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grazie gianfranco rosi!
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Un film che nasce in una terra di violenza non può e non deve essere un film “bello". Si rimprovera questo peccato di kalokagathia a Notturno, per il suo essere "bello e buono" e rispettare i 'canoni estetici' di un ellenismo cinefilo che si può apprezzare pienamente solo di fronte a scenari distopici o visionari; la morte e il dolore che partorisce appartengono solo allo squallore che li ospita e che ha l'obbligo di rendere sgradevole ogni tentativo di avvicinamento. La distruzione deve allontanare. E, invece, Rosi si avvicina alla sofferenza, la riscalda e la salva dallo svuotamento della sua stessa natura, la vita.
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Un film che nasce in una terra di violenza non può e non deve essere un film “bello". Si rimprovera questo peccato di kalokagathia a Notturno, per il suo essere "bello e buono" e rispettare i 'canoni estetici' di un ellenismo cinefilo che si può apprezzare pienamente solo di fronte a scenari distopici o visionari; la morte e il dolore che partorisce appartengono solo allo squallore che li ospita e che ha l'obbligo di rendere sgradevole ogni tentativo di avvicinamento. La distruzione deve allontanare. E, invece, Rosi si avvicina alla sofferenza, la riscalda e la salva dallo svuotamento della sua stessa natura, la vita. Perché l’estetica non tratta solo del bello, ma anche di altre categorie come il sublime, il grottesco, il tragico, in una “pluricategorialità dell’arte” che si riempie di una molteplicità di dimensioni e di significati. Ho amato tutto di questo film e, sì, ho pianto lacrime di gratitudine. Grazie Gianfranco Rosi!
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cpettine
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domenica 31 gennaio 2021
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viaggio al centro della terra
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Film documento, lungo tre anni, girato dentro le ferite più profonde del territorio al confine tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Rosi è il Virgilio che ci porta in un viaggio interminabile, e interminato, verso l’inferno della guerra. Come Dante veniamo portati in un mondo di desolazione, violenza, privazioni. Questi temi, da sempre al centro della narrazione cinematografica, vivono qui una nuova luce, quella grigia del vuoto, dell’attesa, della claustrofobica-agorafobica assenza di prospettiva, della infanzia negata. L’iperrealismo cinematografico della guerra lascia spazio ad un nuovo realismo, lirico, essenziale, scolpito, dove il dolore vive imploso nei volti del quotidiano, nelle lente liturgie del cacciatore, del pescatore, del soldato, del carcerato, gesti simili perché privati di senso da una assenza, l’assenza di prospettiva, di luce, di speranza.
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Film documento, lungo tre anni, girato dentro le ferite più profonde del territorio al confine tra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Rosi è il Virgilio che ci porta in un viaggio interminabile, e interminato, verso l’inferno della guerra. Come Dante veniamo portati in un mondo di desolazione, violenza, privazioni. Questi temi, da sempre al centro della narrazione cinematografica, vivono qui una nuova luce, quella grigia del vuoto, dell’attesa, della claustrofobica-agorafobica assenza di prospettiva, della infanzia negata. L’iperrealismo cinematografico della guerra lascia spazio ad un nuovo realismo, lirico, essenziale, scolpito, dove il dolore vive imploso nei volti del quotidiano, nelle lente liturgie del cacciatore, del pescatore, del soldato, del carcerato, gesti simili perché privati di senso da una assenza, l’assenza di prospettiva, di luce, di speranza. Il ricordo della violenza è l’unica possibile elaborazione. “Notturno” è una notte senza fine, perché senza fine è il dolore di quella madre che rivive la morte del figlio immaginandola. Siamo arrivati al centro della terra, oltre non si può più andare.
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francesco2
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domenica 2 gennaio 2022
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un film che si perde, ma poi si ritrova
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Come aveva dimostrato in Sacro GRA e Fuocommare, Gianfranco Rosi non prova interesse per il Tempo-luogo-azione di aristotelica memoria.
Lo conferma anche in questo nuovo lungometraggio, che tuttavia -forse*non casualmente , deve perdersi, per poi ritrovarsi, proprio come avviene ad una parte dei poveri disperati che G.Rosi racconta. Dividendo il film in tre parti, infatti, la prima risulta preferibile a quel sacro GRA che gli era valso il suo Leone d oro a Venezia. Immagini suggestive -non estetizzanti, secondo me, cm,e invece hanno scritto illustri commentatori. Tuttavia, il film poi si perde in un umanitarismo vacuo, inferiore -a questo punto- a Fuocoammare, quantomeno piu crudo nella sua denuncia.
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Come aveva dimostrato in Sacro GRA e Fuocommare, Gianfranco Rosi non prova interesse per il Tempo-luogo-azione di aristotelica memoria.
Lo conferma anche in questo nuovo lungometraggio, che tuttavia -forse*non casualmente , deve perdersi, per poi ritrovarsi, proprio come avviene ad una parte dei poveri disperati che G.Rosi racconta. Dividendo il film in tre parti, infatti, la prima risulta preferibile a quel sacro GRA che gli era valso il suo Leone d oro a Venezia. Immagini suggestive -non estetizzanti, secondo me, cm,e invece hanno scritto illustri commentatori. Tuttavia, il film poi si perde in un umanitarismo vacuo, inferiore -a questo punto- a Fuocoammare, quantomeno piu crudo nella sua denuncia. Solo successivamente Notturno ritrova gòi stimoli che proponeva all inizio. La notte dei disperati, si potrebbe pensare, risulta invisibile come le vite dei protagonisti di sacro GRA, estrema periferia romana. Il film nell nsieme funziona, ma se si riinegano tempo, luogo ed azione, occorrerebbe una visione alternativa del cinema
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stefano capasso
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venerdì 2 settembre 2022
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ferite del passato e speranze future
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Notturno di Gianfranco Rosi è un documentario girato nell’arco di tre anni lungo confini difficili del Medio Oriente: Kurdistan, Siria, Libano, Iraq, Iran, territori dove le guerre hanno lasciato il segno e in alcuni casi sono ancora in corso. L’osservazione di Rosi è come suo solito, silenziosa, nel tentativo di apparire più neutrale possibile. Il racconto del dolore è affidato ai protagonisti stessi che durante la loro quotidianità rievocano lutti ed esperienze terribili a cui hanno preso parte. Spetta ad un gruppo di teatro “sociale” messo su in uno dei luoghi raccontati a fungere da narrazione simbolicamente rappresentativa di tutti i conflitti che hanno dilaniato la regione; una regione che sin da tempi remoti è stata creata ad uso e consumi di potenze esterne che hanno contribuito a perseguire interessi altri a quelli dei popoli raccontati.
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Notturno di Gianfranco Rosi è un documentario girato nell’arco di tre anni lungo confini difficili del Medio Oriente: Kurdistan, Siria, Libano, Iraq, Iran, territori dove le guerre hanno lasciato il segno e in alcuni casi sono ancora in corso. L’osservazione di Rosi è come suo solito, silenziosa, nel tentativo di apparire più neutrale possibile. Il racconto del dolore è affidato ai protagonisti stessi che durante la loro quotidianità rievocano lutti ed esperienze terribili a cui hanno preso parte. Spetta ad un gruppo di teatro “sociale” messo su in uno dei luoghi raccontati a fungere da narrazione simbolicamente rappresentativa di tutti i conflitti che hanno dilaniato la regione; una regione che sin da tempi remoti è stata creata ad uso e consumi di potenze esterne che hanno contribuito a perseguire interessi altri a quelli dei popoli raccontati.
Spicca la qualità della fotografia, per alcuni fin troppo bella e inadatta all’orrore che vogliono mettere in scena. D’altra parte Rosi racconta chi, in qualche modo, è sopravvissuto, chi può ancora raccontare gli orrori che ha visto, dai bambini dei campi profughi alle anziane donne che hanno perso figli in battaglia. Ferite profonde che necessiteranno tempo per essere rimarginate, ma che al momento possono cominciare ad essere viste, sperando in un futuro che segua percorsi diversi da quelli svoltisi sin’ora.
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