La Dea Fortuna

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Le molte direzioni in cui si imprigiona l''amore Valutazione 4 stelle su cinque

di Felicity


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mercoledì 17 marzo 2021

Un film civile. Un film militante. Ma soprattutto un film umano. Umanissimo. Senza tradire le proprie scelte di campo (anche qui, al centro del film c’è una coppia omosessuale), Ferzan Ozpetek lascia fuori campo un certo simpatico folclore gay d’antan per scavare dentro i nodi dell’amore, passionale e filiale insieme, e andare dritto al cuore: cosa conta davvero quando si ama? Che cosa si è disposti a mettere in gioco in nome dell’amore? Fino a dove si è capaci di rischiare?
Dietro un titolo vagamente antifrastico — la «dea fortuna» va letta come casualità, nel senso del destino che apre tante strade possibili senza indicarne davvero una — il film scava nelle molte direzioni in cui si può imprigionare il sentimento dell’amore, come per mettere alla prova chi lo usa come uno scudo, dietro cui difendersi o nascondersi. Senza mai scene madri ma ogni volta spingendo i personaggi a mettere in gioco quell’umanità che sola può aiutare a vivere davvero. E ad affrontare gli ostacoli con cui ogni rapporto — affettivo o sentimentale fa poca differenza — deve fare i conti.
Proprio come quelli che Alessandro (Edoardo Leo) e Arturo (Stefano Accorsi) si trovano ad affrontare quando l’amica Annamaria (Jasmine Trinca), che vive a Palestrina, chiede loro di occuparsi dei suoi due figli senza padre, Martina (Sara Ciocca) e Alessandro (Edoardo Brandi). Per pochi giorni, giusto il tempo di fare qualche esame in ospedale e capire l’origine di certi noiosi mal di testa.
Compagni da quindici anni, i due adulti non stanno attraversando il miglior momento della loro unione: la passione è tramontata, le tentazioni sono all’ordine del giorno e vecchi risentimenti tornano a farsi sentire, come il rimpianto di Arturo per aver abbandonato una possibile carriera universitaria e aver seguito a Roma Alessandro, che invece esercita con soddisfazione il mestiere di idraulico. E quando nella loro vita entrano all’improvviso la preoccupazione per la salute di Annamaria (l’amica del cuore di Alessandro, all’origine del suo incontro con Arturo) e l’impegno quotidiano per i due bambini, ecco che l’equilibrio su cui si regge con qualche fatica il loro rapporto inizia a scricchiolare.
Ed è qui che Ozpetek (anche sceneggiatore insieme con Gianni Romoli e Silvia Ranfagni) mostra tutta la sua bravura, nel tratteggiare con giustezza e verosimiglianza il percorso verso una nuova assunzione di responsabilità affettiva. Non verso i due bambini, si badi bene, ma verso loro stessi, verso il loro legame. Che dovrà fare i conti non con la stanca routine di una coppia più o meno affiatata (come mostrano le prime scene, quelle della festa di un matrimonio altrui), ma con un nuovo aspetto dell’amore, una nuova e diversa scommessa.
Naturalmente il film non tralascia i colpi di scena, cui il prolungarsi delle analisi di Annamaria in ospedale costringerà le due «coppie», quella adulta e quella infantile. Entrerà in gioco anche la nonna dei bambini, una Barbara Alberti degna delle più temibili streghe dei fratelli Grimm, con la sua reggia semiabbandonata (la villa Valguarnera di Bagheria) e la sua opprimente volontà di potere. Ma diversamente dal passato, Ozpetek sceglie di resistere al romanzesco, salta i passaggi e gli snodi per andare diritto a quello che gli sta a cuore: la scoperta di un nuovo modo di amarsi, che non passa attraverso la tensione erotica (non c’è una sola scena di sesso. Anche questa è una prima volta) ma attraverso la riscoperta e la rivalutazione della tenerezza, dell’affetto familiare, del proprio ruolo di soggetti d’affetto e non di oggetti del desiderio.
Una conquistata maturità narrativa (non può essere un caso che Ozpetek abbia dovuto riflettere su qualcosa di simile, dopo la scomparsa del fratello) che riverbera anche sulla direzione degli attori e naturalmente sulla loro convincentissima prova. Dai ruoli «minori» (gli amici Pia Lanciotti e Filippo Nigro, lui segnato da una demenza senile che lei protegge con amore) a una giustamente malinconica Trinca, fino alla superba interpretazione di Accorsi e della «novità» Leo, la cui giustezza di tocco si fissa nella memoria. Fossero sempre così gli attori italiani.

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