eugenio
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venerdì 12 ottobre 2018
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un padre, una figlia nel bosco della loro anima
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Sfiorava almeno nei primi trenta minuti il capolavoro questo film di Debra Granik, per la bellezza dell’ambiente naturale, per il suono del silenzio, per il rapporto quasi simbiotico tra un padre e una figlia che ricorda molto quello in The road di Cormac McCarthy di qualche anno fa.
Solo che in questo film non esiste un dramma apocalittico. Siamo lontani dalle atmosfere di invasioni aliene, di misteriose radiazioni che hanno annullato l’umanità riducendola in polvere. No, la pellicola è ambientato nei giorni nostri ma sospesa in un’atmosfera quasi a-temporale, negli angoli più reconditi, tra foreste vergini e luoghi permeati dal grande fascino, severità e sacrificio.
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Sfiorava almeno nei primi trenta minuti il capolavoro questo film di Debra Granik, per la bellezza dell’ambiente naturale, per il suono del silenzio, per il rapporto quasi simbiotico tra un padre e una figlia che ricorda molto quello in The road di Cormac McCarthy di qualche anno fa.
Solo che in questo film non esiste un dramma apocalittico. Siamo lontani dalle atmosfere di invasioni aliene, di misteriose radiazioni che hanno annullato l’umanità riducendola in polvere. No, la pellicola è ambientato nei giorni nostri ma sospesa in un’atmosfera quasi a-temporale, negli angoli più reconditi, tra foreste vergini e luoghi permeati dal grande fascino, severità e sacrificio.
Leave no trace, Senza lasciare traccia, dal romanzo My abandonment di Peter Rock, nelle sale dall’otto novembre è una storia senza antagonisti, almeno non evidenti. C’è un padre, Will (Ben Foster) veterano di guerra in Iraq, affetto da disordine post-traumatico e una figlia adolescente Tomasine (Thomasin Mc Kenzie), abbreviata androginicamente in Tom.
Will ha rifiutato ogni forma di sussidio sociale, non sopporta il confino in enti predisposti e vive con Tom ai margini del mondo, in un rapporto con la natura istintivo, di sopravvivenza. Dal canto suo la figlia è cresciuta con Will fin dall'infanzia a seguito della morte della madre e manifesta un legame quasi viscerale nei confronti di un’autorità che vede sì precaria ma al tempo stesso, necessaria alla sua sopravvivenza. Will è un padre amorevole che nonostante il disturbo mentale, le insegna la letteratura così come il gioco degli scacchi e la caccia, non lasciandola mai sola. I due vivono come rapaci avvinghiati alla vita, dormono insieme mantenendo il calore in una foresta che è loro dimora.
Tutto cambia quando il loro “isolamento dalla società” viene scoperto e reso pubblico. Le autorità impediscono a padre e figlia di tornare nel silvano ambiente, relegandoli in un centro sociale e ad un’istruzione regolare per la fanciulla. Una vita negli schemi che a Will non piace. Con l’evidente conseguenza della fuga forzata anche per Tom che pian piano iniziava ad abituarsi a quella nuova esperienza di socialità, di confronto, di istruzione.
Il ciclo tenderà a ripetersi, di paese in paese, di bosco in bosco trasformando l’esistenza del duo in una peripatetica, consumata, lunghissima fuga dai tormenti di guerra e da quell’indipendenza di Tom, sempre più forte e necessaria per la sua maturità futura.
Senza lasciare tracciapuò sembrare superficialmente il classico mito del buon selvaggio incapace di integrarsi nella società moderna, una specie di versione meno edulcorata di quello che fu due anni fa Captain Fantastic (anche lì c’era una famiglia “sui generis”) dai toni non grotteschi e accentuatamente drammatici.
In realtà è qualcosa di più. La regia pone sì l’accento a un taglio docu-drammatico, con steady-cam che osserva intimamente il legame tra padre e figlia ma, grazie alla genuina autenticità della performance di Foster e McKenzie, non indugia assolutamente sul trauma del veterano che viene reso manifesto attraverso gli occhi e lo sguardo silenzioso del dolorante padre. Non ci sono parole inutili: il dialogo tra padre e figlia è ridotto al minimo. Si intendono con un semplice sguardo e la dinamica tra di loro è la base su cui la regista costruisce una storia di difficile etichettatura.
Senza lasciare traccia sfugge infatti alla locuzione propriamente detta di dramma e anche di road-movie. Ci sono sì questi elementi ma nessuno domina sull’altro.
Il risultato è un ibrido, senza effetti speciali, che mostra la realtà così come è, nella sua linea d’ombra che Tom supererà presto per emergere da dal bozzolo dell'adolescenza alla maturità di una farfalla sino alla commozione che diventa consapevolezza.
Eppure proprio questo limita in qualche parte la pellicola. Senza lasciare traccia sfiora appunto “il capolavoro” senza tenderlo per quel qualcosa che suona alla fine un pò forzato ma necessario.
Resta comunque una grandissima prova di recitazione, quasi teatrale, con palcoscenico la natura, la foresta dell’Oregon, in ogni forma.
E scusate se è poco.
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carloalberto
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martedì 20 novembre 2018
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fuga dagli uomini
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo.
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo. Metafora degli atteggiamenti delle diverse età rispetto alla vita, l’incantata meraviglia della fanciullezza a contrasto con l’umore cupo e chiuso dell’età adulta. Fa da sfondo la natura, al contempo comprimaria e partecipe al dramma, sia quando è vissuta con rispetto dal duo padre figlia in fuga dagli esseri umani, sia quando è sfruttata e piegata alle utilità dell’uomo ed in questo senso risultano significative le scene dell’apicoltrice, dell’allevatore di conigli e della raccolta di alberi di natale. I personaggi seguono ognuno la propria strada, come a voler dire che non c’è una sola via ma infinite, a seconda della prospettiva che si assume. Il punto di incontro può essere soltanto occasionale e caduco come una canzone country ascoltata attorno a un falò, intonata da un vecchio hippj accompagnato da una chitarra. In sintesi, il film è drammatico e riflessivo, ma più bello esteticamente che avvincente dal punto di vista emotivo.
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carloalberto
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martedì 20 novembre 2018
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fuga dagli uomini
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo.
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo. Metafora degli atteggiamenti delle diverse età rispetto alla vita, l’incantata meraviglia della fanciullezza a contrasto con l’umore cupo e chiuso dell’età adulta. Fa da sfondo la natura, al contempo comprimaria e partecipe al dramma, sia quando è vissuta con rispetto dal duo padre figlia in fuga dagli esseri umani, sia quando è sfruttata e piegata alle utilità dell’uomo ed in questo senso risultano significative le scene dell’apicoltrice, dell’allevatore di conigli e della raccolta di alberi di natale. I personaggi seguono ognuno la propria strada, come a voler dire che non c’è una sola via ma infinite, a seconda della prospettiva che si assume. Il punto di incontro può essere soltanto occasionale e caduco come una canzone country ascoltata attorno a un falò, intonata da un vecchio hippj accompagnato da una chitarra. In sintesi, il film è drammatico e riflessivo, ma più bello esteticamente che avvincente dal punto di vista emotivo.
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cardclau
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domenica 11 novembre 2018
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sulla libertà
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Il coraggioso film di Debra Granik, Senza Lasciare Traccia, mi ha fatto di primo acchito venire in mente quella strofa della canzone della prima guerra mondiale, Sui Monti Scarpazi, “… O mio sposo eri andato soldato per difendere l'imperator, ma la morte quassù hai trovato e mai più non potrai ritornar … “. Will (un equilibratissimo Ben Foster) è un veterano tornato da tali orrori della guerra, un povero che ha difeso la straricchezza dei pochi, che non vediamo ma che possiamo solo immaginare, da costringerlo ad una vita solo atta a sopravvivere a sé stesso. L’unico legame di Will, in una società, quella americana, in cui il controllo contro la temibile, perché pericolosa, diversità raggiunge dei livelli che hanno del persecutorio, è sua figlia Tom (una tenerissima Thomasin McKenzie), con la quale cerca di condividere il suo assoluto bisogno di star solo.
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Il coraggioso film di Debra Granik, Senza Lasciare Traccia, mi ha fatto di primo acchito venire in mente quella strofa della canzone della prima guerra mondiale, Sui Monti Scarpazi, “… O mio sposo eri andato soldato per difendere l'imperator, ma la morte quassù hai trovato e mai più non potrai ritornar … “. Will (un equilibratissimo Ben Foster) è un veterano tornato da tali orrori della guerra, un povero che ha difeso la straricchezza dei pochi, che non vediamo ma che possiamo solo immaginare, da costringerlo ad una vita solo atta a sopravvivere a sé stesso. L’unico legame di Will, in una società, quella americana, in cui il controllo contro la temibile, perché pericolosa, diversità raggiunge dei livelli che hanno del persecutorio, è sua figlia Tom (una tenerissima Thomasin McKenzie), con la quale cerca di condividere il suo assoluto bisogno di star solo. Will ha sviluppato, apprese durante il servizio militare, delle notevoli abilità nelle tecniche di sopravvivenza che impiega per soddisfare il suo bisogno di solitudine. A tal fine cerca di vivere sul suolo pubblico, in un parco dello stato dell’Oregon, cosa non permessa dalla legge, in una confusione tra il termine “pubblico” e “privato”. Pubblico (dal dizionario Treccani): 1. Che riguarda la collettività, considerata nel suo complesso e in quanto fa parte di un ordine civile (cittadinanza o nazione); 2. Che è di tutti, che è comune a quanti fanno parte della collettività; 3. Che è accessibile a tutti, aperto a tutti, che tutti possono utilizzare, che non è di proprietà privata né riservato a persone o gruppi determinati … Ma qualcosa si inceppa nel processo, per cui Will e Tom vengono momentaneamente ingoiati, fanno cioè ritorno, nella civiltà. Soprattutto evidente è la tendenza della società a medicalizzare e a omologare tutti gli aspetti della vita, in questionari lunghissimi, di autocompiacimento, di vero/falso, per cercare di identificare le “mele marcie” ovviamente da rieducare. Will è una mela marcia non perché ha commesso qualcosa di illegale, di criminale, ma perché è un diverso. Però è un diverso innocuo, un grande nel suo genere, non ha sviluppato delle pericolose tendenze aggressive verso una società truffaldina e briccona, né le ha riversate sulla figlia, come chi umiliato nell’ambiente di lavoro torna a casa e picchia la moglie e i figli. È un padre sufficientemente buono. Come ogni relazione a due, malgrado la differenza della responsabilità, non basta che uno degli addendi sia sufficiente. Tom è una figlia splendida, che ama suo padre, e che nella compassione che prova verso di lui, giunge a fare il genitore del padre. Ma riesce alla fine a separarsi da lui. In modo adulto, non violento.
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flyanto
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giovedì 15 novembre 2018
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confinati nei boschi
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Come si evince dal titolo, “Senza Lasciare Traccia” della regista Debra Granik è un film che fa intuire il fatto di vivere in clandestinità o, comunque, con la totale intenzione di non venire identificati o scoperti dagli altri.
Ed è la situazione, alquanto insolita, rappresentata in questa pellicola dove un padre ed una figlia adolescente vivono da anni nascosti all’interno di un bosco dell’Oregon, senza rivelare alla Società ed alle autorità competenti la propria presenza e conducendo una tipologia di vita parecchio selvaggia, usufruendo per sostentarsi di tutto ciò che la Natura offre spontaneamente. Non si conosce il motivo esatto di questa scelta di vita ma si intuisce che egli è un veterano di guerra, probabilmente ormai disadattato per vivere comunemente nella società contemporanea, e che la di lui moglie, nonché mamma della ragazza, è morta anni addietro, lasciandoli entrambi soli.
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Come si evince dal titolo, “Senza Lasciare Traccia” della regista Debra Granik è un film che fa intuire il fatto di vivere in clandestinità o, comunque, con la totale intenzione di non venire identificati o scoperti dagli altri.
Ed è la situazione, alquanto insolita, rappresentata in questa pellicola dove un padre ed una figlia adolescente vivono da anni nascosti all’interno di un bosco dell’Oregon, senza rivelare alla Società ed alle autorità competenti la propria presenza e conducendo una tipologia di vita parecchio selvaggia, usufruendo per sostentarsi di tutto ciò che la Natura offre spontaneamente. Non si conosce il motivo esatto di questa scelta di vita ma si intuisce che egli è un veterano di guerra, probabilmente ormai disadattato per vivere comunemente nella società contemporanea, e che la di lui moglie, nonché mamma della ragazza, è morta anni addietro, lasciandoli entrambi soli. La ragazza, sembra felicemente adattatasi a questa atipica realtà che, peraltro, ella reputa nella norma e, pertanto, giusta, ma quando essi, vengono casualmente scoperti dai rangers locali, vengono condotti in un comunità con l’intento di renderli partecipi alle attività e ad uno stile di vita più normativo. E’ così che la giovane inizia a scoprire un mondo ed uno stile di vita del tutto nuovi ed inizia ad apprezzarli ma, costretta ad assecondare la volontà paterna di ritornare a vivere nel bosco, insieme a lui fugge dalla suddetta comunità, dirigendosi verso una località boschiva più a Nord del Paese. In seguito ad un incidente in cui il padre viene ferito gravemente, il duo viene questa volta a contatto ed aiutato da un gruppo di altrettanti veterani che però vivono insieme in varie roulotte e ciò farà scaturire nella ragazza sempre di più la consapevolezza della necessità di doversi staccare dal padre e vivere la propria esistenza secondo delle norme sociali più legittime ed affrontare naturalmente le proprie future esperienze.
Quest’opera cinematografica di Debra Granik è sicuramente insolita o, più precisamente, alquanto originale per ciò che riguarda il suo contenuto. Già con il precedente “Un Gelido Inverno” la Granik si era rivelata, oltre che una brava e consapevole regista, un’autrice molto particolare per le storie rappresentate dove il protagonista al centro della vicenda è per lo più sempre un personaggio femminile che vive in solitudine o, almeno, distaccato dal resto della comunità, con uno stile di vita all’insegna della semplicità e della naturalezza più totali, volitivo e quanto mai determinato. Le ‘eroine’ di questa regista sono giovani donne che, solitamente private dell’affetto più caro come quello di una madre, sono state costrette a crescere in fretta ed a lottare contro le avversità che si presentano loro: oltre a quelle propriamente dure e spietate della natura e della vita stessa, esse devono soprattutto fare fronte all’ ostilità od alla predominante volontà degli altri. In “Un Gelido Inverno” era la cattiveria degli abitanti delle terre vicine, in “Senza Lasciare Traccia” la quanto mai ferma decisione di un padre che, per quanto amorevole nei confronti della figlia, lo rivela come un prevaricatore, per non dire addirittura una persona egoista, che decide per la ragazza uno stile di vita del tutto particolare e poco consono ad una giovane che ha il diritto e la necessità di farsi nuove esperienze.
Interessante, soprattutto come rappresentazione ed elogio di un processo inevitabile di crescita e maturazione individuale.
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felicity
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giovedì 27 febbraio 2020
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storia universale in linguaggio semplice
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C’è un nuovo filone, nel cinema americano, incentrato su stili di vita alternativi, fra utopia e contestazione.
"Senza lasciare traccia" si trasforma pian piano dall’essere una riflessione sulle comunità escluse dal sogno americano, al racconto di un puro e semplice rito di passaggio, in cui una ragazza che ha sempre avuto il padre come unico punto di riferimento e fonte di ogni conoscenza e la natura a scandire il ritmo della propria vita, si ritrova a scoprire che in effetti esiste anche dell’altro, esistono altri stimoli, idee e possibili modelli di mondo e vita.
La regista ha il dono della sobrietà, ogni blocco narrativo vive di per se stesso, senza necessità di agganciarsi alle direttive di un apologo morale sovrastante: nel primo blocco ci sono l’idillio della vita a contatto con la natura e segnali di disturbi post-traumatici bellici, soverchiati da un forte legame padre/figlia di cui sono persuase anche le autorità.
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C’è un nuovo filone, nel cinema americano, incentrato su stili di vita alternativi, fra utopia e contestazione.
"Senza lasciare traccia" si trasforma pian piano dall’essere una riflessione sulle comunità escluse dal sogno americano, al racconto di un puro e semplice rito di passaggio, in cui una ragazza che ha sempre avuto il padre come unico punto di riferimento e fonte di ogni conoscenza e la natura a scandire il ritmo della propria vita, si ritrova a scoprire che in effetti esiste anche dell’altro, esistono altri stimoli, idee e possibili modelli di mondo e vita.
La regista ha il dono della sobrietà, ogni blocco narrativo vive di per se stesso, senza necessità di agganciarsi alle direttive di un apologo morale sovrastante: nel primo blocco ci sono l’idillio della vita a contatto con la natura e segnali di disturbi post-traumatici bellici, soverchiati da un forte legame padre/figlia di cui sono persuase anche le autorità.
Segue una sorta di trattato sociopolitico che mostra, con i fatti, la longa manus della società per il reinserimento, fra moduli, patenti, cellulari, lavoro stabile, Chiesa Scuola e Comunità.
Il paradosso: per mantenere l’indipendenza, bisogna adattarsi. La controcultura inizia a perdere appeal, sempre senza forzature, quando l’assistente sociale rimarca l’altra funzione principale della scuola, la socializzazione, che Tom esperimenta con piacere e abbandona per seguire la fuga paterna in un on-the-road anni settanta.
La fiducia crolla nel terzo blocco narrativo, non per il freddo sofferto ma quando Tom realizza la vulnerabilità del padre, cui solo gli altri sanno porre rimedio.
La “morale” viene da sé e rispetta le scelte individuali: della comunità Tom ha bisogno, le paure paterne non sono generalizzabili (l’allegoria delle api), c’è l’opzione raminga del fantasma dei boschi.
Anche se letta come romanzo di formazione al distacco dalle figure genitoriali, la quadratura dell’apologo è meno sorprendente delle inedite tipologie di comunità rappresentate: la fattoria di alberi di natale, gli homeless nel parco e il camping nel bosco.
Senza lasciare traccia è una bellissima storia universale raccontata con linguaggio semplice e toccante allo stesso tempo e reso ancor più bello da un’interpretazione da applausi di Thomasin McKenzie, che regala al suo personaggio un’incredibile intensità.
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gianleo67
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martedì 9 ottobre 2018
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una mosquito coast tra i boschi dell'oregon
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Vivere fra i boschi di un parco nazionale vicino Portland è per il veterano Will e la figlia adolescente Tomasine, l'unico modo in cui l'uomo sente di potersi ancora rapportare con la società e con un mondo di bisogni superflui che vive come una opprimente e angosciosa prigionia. Quando vengono scoperti dalle autorità, inizia per loro una trafila burocratica fatta di colloqui psicologici, assistenti sociali e reinserimento istituzionale. Il desiderio di libertà e la fuga verso un nuovo Eden sono però sempre a portata di mano. La decrescita felice e la ricerca di un rapporto con la natura più autentico ed essenziale, sono tematiche facilmente cooptate dal cinema Indie del nuovo secolo; la risposta quasi naturale ad una crisi di identità che ha investito la società americana (e non solo) alle prese con le sperequazioni economiche e sociali ai tempi delle guerre per il l'oro nero e del più grande default finanziario causato da politiche neo-liberiste dissennatamente bipartisan.
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Vivere fra i boschi di un parco nazionale vicino Portland è per il veterano Will e la figlia adolescente Tomasine, l'unico modo in cui l'uomo sente di potersi ancora rapportare con la società e con un mondo di bisogni superflui che vive come una opprimente e angosciosa prigionia. Quando vengono scoperti dalle autorità, inizia per loro una trafila burocratica fatta di colloqui psicologici, assistenti sociali e reinserimento istituzionale. Il desiderio di libertà e la fuga verso un nuovo Eden sono però sempre a portata di mano. La decrescita felice e la ricerca di un rapporto con la natura più autentico ed essenziale, sono tematiche facilmente cooptate dal cinema Indie del nuovo secolo; la risposta quasi naturale ad una crisi di identità che ha investito la società americana (e non solo) alle prese con le sperequazioni economiche e sociali ai tempi delle guerre per il l'oro nero e del più grande default finanziario causato da politiche neo-liberiste dissennatamente bipartisan. Se è facile pensare al paradigma storia vera- racconto (auto) biografico - traslazione cinematografica che ha decretato la fortuna nazional-popolare e il variegato merchandising del pluriprepiamo esordio di Into the Wilde o il facile appeal del più recente padre chioccia del Viggo Mortensen di Captain Fantastic, esempi più defilati di questa deriva antisistema vanno ricercati negli Indie drama settari e comunardi di The East e Martha Marcy May Marlene, dove l'utopia di una fuga dalla società celano l'alienazione di chi non sa più vivere secondo regole precostituite, cercando di ristabilire un nuovo ordine e un delirante dispotismo che non può che risolversi nell'ingiustizia e nella rovina (The Mosquito Coast). Traendo spunto dalla sottigliezze del soggetto letterario, qui le ragioni del reduce interpretato dal convincente Ben Foster (Lone Survivor) sono assai più sfumate (un ritaglio di giornale verso la fine del film vorrebbe spiegare qualcosa), mettendo sul piatto con efficace capacità descrittiva e dialoghi privi di retorica la lotta impari dell'uomo contro le forze normalizzatrici che assediano un dominio silvestre ritagliato al di fuori del perimetro urbano, insidiando una responsabilità genitoriale conbattuta tra la gestione delle risorse trofiche e l'educazione filiale, tra gli impalpabili fantasmi della memoria e le concrete minacce dell'istituzionalizzazione coatta. Diviso idealmente in tre parti (la vita nei boschi, il reinserimento, la fuga in un nuovo Eden) è un film che pur nello schematismo narrativo ed in qualche buco della storia, si confronta con una realtà dolorosa e urgente, chidendosi se sia giusto e possibile vivere isolati da una società che si avverte come una gabbia (come la tela di ragno che fa capolino nelle inquadrature iniziali e finali) e se questo malinteso concetto di libertà possa essere imposto a chi (la figlia di una delicata Thomasin McKenzie) avrebbe diritto ad una maggiore stabilità e sicurezza familiari; la risposta passa da un distacco forzato, dalla solita comunità hippie che rappresenta il trait d'union tra antipodiche filosofie di vita e dalla bellissima scena finale di una fuga silvestre di un animale evoluto che decide di farsi di nuovo largo tra il fitto sottobosco di felci e rosacee da cui era emerso all'alba di una primigenia civiltà. Presentato al Sundance Film Festival 2018 ed al Festival di Cannes 2018, è stato premiato per la migliore sceneggiatura al nostrano ed insulare Taormina International Film Festival 2018.
I pledge my head to clearer thinking, my heart to greater loyalty, my hands to larger service, and my health to better living, for my club, my community, my country, and my world
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nuttyn
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mercoledì 17 aprile 2019
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una metafora sulla conquista dell'indipendenza
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Will (Ben Foster) e la figlia quindicenne Tom (Thomasin Mc Kenzie) vivono isolati e illegalmente in un lussureggiante parco pubblico di Portland. Will soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) - in seguito al servizio militare prestato in Iraq - e nella vita isolata immersa nella natura sembra aver trovato un sollievo alla sofferenza. Quando uno jogger si accorge della loro presenza nel parco, Will e Tom sono obbligati dalle autorità a stabilirsi in città, in un’abitazione messa a disposizione dai servizi sociali; Will non riesce, però, ad ambientarsi e si avventura nuovamente nei boschi, portando con sé la figlia, che lo segue a malincuore.
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Will (Ben Foster) e la figlia quindicenne Tom (Thomasin Mc Kenzie) vivono isolati e illegalmente in un lussureggiante parco pubblico di Portland. Will soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) - in seguito al servizio militare prestato in Iraq - e nella vita isolata immersa nella natura sembra aver trovato un sollievo alla sofferenza. Quando uno jogger si accorge della loro presenza nel parco, Will e Tom sono obbligati dalle autorità a stabilirsi in città, in un’abitazione messa a disposizione dai servizi sociali; Will non riesce, però, ad ambientarsi e si avventura nuovamente nei boschi, portando con sé la figlia, che lo segue a malincuore. Dopo varie e spiacevoli vicissitudini, i due s’imbattono in una comunità che li accoglie benevolmente e mette a loro disposizione un alloggio. Tom inizia a integrarsi con gioia nel nuovo ambiente ed è attratta dall’opportunità di dare un diverso significato alla sua esistenza. Will però, sempre più irrequieto, dopo qualche giorno, tenta ancora una volta di convincere la figlia che l’unica possibilità per stare bene è di vivere con lui nella natura, lontano dal mondo civile, e la costringe a seguirlo nel sentiero del bosco. Tom però non vuole lasciare la comunità, e, dopo aver abbracciato il padre in lacrime, lo abbandona al suo destino, volgendogli le spalle per tornare fra la gente e iniziare il suo viaggio verso il futuro e l’indipendenza.
Liberamente tratto dal romanzo “My Abandonment” di Peter Rock, Senza lasciare traccia collega fra loro diversi filoni tematici cari alla regista Debra Granik. Come nel ruvido e toccante Un gelido Inverno (2010) le avventate e irresponsabili azioni di un padre ricadono sulla giovane figlia, che, da sola, riesce a trovare la forza interiore necessaria per reagire a una situazione sempre più pericolosa, superando faticosi ostacoli. In Stray Dog (2014) il protagonista, questa volta un reduce del Vietnam, vive una condizione interiore di estremo disagio che lo tormenterà per il resto della sua esistenza, ma che però, al contrario di Will, trova proprio nel rapporto con gli altri un modo per stare meglio con se stesso.
Storie di emarginati, dunque, mossi da volontà di riscatto, desiderio d’indipendenza e alla ricerca di un significato che dia valore alla loro esistenza; storie narrate con intelligenza e sensibilità, per far riflettere e dimostrare che tovare vie di uscita da situazioni anche molto difficili non è impossibile, se riusciamo a capire cosa è meglio per noi e se abbiamo la determinazione, la motivazione e il coraggio per fare le giuste scelte.
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peer gynt
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domenica 16 giugno 2019
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vita nei boschi o vita sociale?
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La cultura americana non può fare a meno dell'utopia ecologico-libertaria di "Walden" di Henry David Thoreau, e ogni tanto quest'utopia rispunta, come un fiume carsico, in qualche film. La rivediamo oggi in questo ottimo lavoro di Debra Granik, incarnata da un padre, che fugge la società traumatizzato dalla guerra, e dalla sua figlia adolescente, che fugge dalla società perché vive con suo padre, che ama e rispetta, e conosce solo questa realtà. Ma i loro sono percorsi diversi, sono età diverse, e la vita la vedono con occhi diversi, la loro scelta di vita nei boschi non ha nulla in comune e non potrà che condurre ad una separazione.
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La cultura americana non può fare a meno dell'utopia ecologico-libertaria di "Walden" di Henry David Thoreau, e ogni tanto quest'utopia rispunta, come un fiume carsico, in qualche film. La rivediamo oggi in questo ottimo lavoro di Debra Granik, incarnata da un padre, che fugge la società traumatizzato dalla guerra, e dalla sua figlia adolescente, che fugge dalla società perché vive con suo padre, che ama e rispetta, e conosce solo questa realtà. Ma i loro sono percorsi diversi, sono età diverse, e la vita la vedono con occhi diversi, la loro scelta di vita nei boschi non ha nulla in comune e non potrà che condurre ad una separazione. Ma quanto sofferta! Granik è regista e sceneggiatrice abile, non solo perché riesce ad evitare qualsiasi caduta nel manicheismo (non ci sono cattivi, nemmeno gli assistenti sociali, che fanno del loro meglio per aiutare padre e figlia ad integrarsi) e anche perché ha l'intelligenza di lasciare poco al dialogo e molto agli sguardi, ai gesti. Gli attori la servono benissimo e il bosco è lì, bellissimo e profondo, a ricordarci che tutti, o prima o dopo, abbiamo sognato quest'utopia irrealizzabile. Ma tutti dobbiamo invece vivere nella società condizionante che abbiamo contribuito a creare. "Ce la caveremo?" chiede la figlia al padre. "Ne trarremo il meglio" risponde lui, in una pausa di serena interruzione dei suoi traumi. E così faremo anche noi: ma tenendo sempre vivo nel nostro cuore (come fa la protagonista nella scena finale del film) il mito irenico-paradisiaco della vita nei boschi.
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lunedì 12 novembre 2018
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discreto ma non radicale
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Non mi ha lasciato l’impressione di un’evoluzione o di un passo in avanti questo nuovo lavoro di Debra Granik, regista la cui sensibilità rimane rivolta all’America dimenticata, dove la natura è ancora selvatica e può costituire allo stesso tempo minaccia ma anche rifugio per coloro che non possono o non vogliono accettare tutte le convenzioni e le norme delle comunità organizzate complesse. A questi soggetti marginali la regista aveva già rivolto la sua attenzione nel validissimo “Un gelido inverno”, film di ispirazione squisitamente indipendente che fece pienamente centro descrivendo con abilità un contesto grezzo e violento e conducendo con fermezza una vicenda molto tesa.
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Non mi ha lasciato l’impressione di un’evoluzione o di un passo in avanti questo nuovo lavoro di Debra Granik, regista la cui sensibilità rimane rivolta all’America dimenticata, dove la natura è ancora selvatica e può costituire allo stesso tempo minaccia ma anche rifugio per coloro che non possono o non vogliono accettare tutte le convenzioni e le norme delle comunità organizzate complesse. A questi soggetti marginali la regista aveva già rivolto la sua attenzione nel validissimo “Un gelido inverno”, film di ispirazione squisitamente indipendente che fece pienamente centro descrivendo con abilità un contesto grezzo e violento e conducendo con fermezza una vicenda molto tesa.
Con Leave no trace siamo in una situazione non dissimile e nella prima parte, che presenta il quotidiano di un padre e una figlia adolescente che vivono nascosti nei boschi, ritroviamo la Granik a suo agio con l’ambiente naturale e con uno stile spoglio che si mantiene in posizione di osservazione, seppur già inizialmente emerga qualche concreta perplessità sulla effettiva sostenibilità di una sopravvivenza continuativa - e non occasionale o sperimentale - in condizioni di vita di tale precarietà. L’impostazione della pellicola si presenta subito come decisamente verista, è quindi naturale che le aspettative dello spettatrore si mantengano alte in termini di stretta verosimiglianza. Man mano che la vicenda cerca di evolvere, spingendo i due fuori dal loro habitat perchè possano affiorare le contraddizioni di una scelta così estrema, si fa strada anche una certa vaghezza direzionale, come se la costruzione narrativa non riuscisse a trainare a dovere uno spunto situazionale interessante. La stessa figura dell’uomo sembra delineata in modo abbastanza indeciso tra amore paterno, disagio psicologico, bonarietà e un certo senso di irresponsabilità ed egoismo, mentre la ragazzina, che apprendiamo essere cresciuta esclusivamente con il padre, istruita a nascondersi agli altri, vivendo alla giornata e senza aver nemmeno mai frequentato la scuola, nulla lascia trasparire di differente, nel modo di porsi e relazionarsi con gli altri, rispetto a una coetanea normalmente socializzata, infatti fin troppo facile appare il suo subitaneo interessamento e avvicinamento a degli sconosciuti, anche considerata la giovanissima età.
Insomma, l’impressione è che il film rimanga sospeso a metà tra una vocazione descrittiva autentica ma non sufficientmente radicale per farne un docufilm (alla Minervini, per intenderci) e invece una costruzione finzionale piuttosto debole e scontata (compresa una certa idealizzazione di determinate comunità e dell’inserimento in esse), che finisce per scolorire anche i personaggi.
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