felicity
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giovedì 27 febbraio 2020
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storia universale in linguaggio semplice
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C’è un nuovo filone, nel cinema americano, incentrato su stili di vita alternativi, fra utopia e contestazione.
"Senza lasciare traccia" si trasforma pian piano dall’essere una riflessione sulle comunità escluse dal sogno americano, al racconto di un puro e semplice rito di passaggio, in cui una ragazza che ha sempre avuto il padre come unico punto di riferimento e fonte di ogni conoscenza e la natura a scandire il ritmo della propria vita, si ritrova a scoprire che in effetti esiste anche dell’altro, esistono altri stimoli, idee e possibili modelli di mondo e vita.
La regista ha il dono della sobrietà, ogni blocco narrativo vive di per se stesso, senza necessità di agganciarsi alle direttive di un apologo morale sovrastante: nel primo blocco ci sono l’idillio della vita a contatto con la natura e segnali di disturbi post-traumatici bellici, soverchiati da un forte legame padre/figlia di cui sono persuase anche le autorità.
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C’è un nuovo filone, nel cinema americano, incentrato su stili di vita alternativi, fra utopia e contestazione.
"Senza lasciare traccia" si trasforma pian piano dall’essere una riflessione sulle comunità escluse dal sogno americano, al racconto di un puro e semplice rito di passaggio, in cui una ragazza che ha sempre avuto il padre come unico punto di riferimento e fonte di ogni conoscenza e la natura a scandire il ritmo della propria vita, si ritrova a scoprire che in effetti esiste anche dell’altro, esistono altri stimoli, idee e possibili modelli di mondo e vita.
La regista ha il dono della sobrietà, ogni blocco narrativo vive di per se stesso, senza necessità di agganciarsi alle direttive di un apologo morale sovrastante: nel primo blocco ci sono l’idillio della vita a contatto con la natura e segnali di disturbi post-traumatici bellici, soverchiati da un forte legame padre/figlia di cui sono persuase anche le autorità.
Segue una sorta di trattato sociopolitico che mostra, con i fatti, la longa manus della società per il reinserimento, fra moduli, patenti, cellulari, lavoro stabile, Chiesa Scuola e Comunità.
Il paradosso: per mantenere l’indipendenza, bisogna adattarsi. La controcultura inizia a perdere appeal, sempre senza forzature, quando l’assistente sociale rimarca l’altra funzione principale della scuola, la socializzazione, che Tom esperimenta con piacere e abbandona per seguire la fuga paterna in un on-the-road anni settanta.
La fiducia crolla nel terzo blocco narrativo, non per il freddo sofferto ma quando Tom realizza la vulnerabilità del padre, cui solo gli altri sanno porre rimedio.
La “morale” viene da sé e rispetta le scelte individuali: della comunità Tom ha bisogno, le paure paterne non sono generalizzabili (l’allegoria delle api), c’è l’opzione raminga del fantasma dei boschi.
Anche se letta come romanzo di formazione al distacco dalle figure genitoriali, la quadratura dell’apologo è meno sorprendente delle inedite tipologie di comunità rappresentate: la fattoria di alberi di natale, gli homeless nel parco e il camping nel bosco.
Senza lasciare traccia è una bellissima storia universale raccontata con linguaggio semplice e toccante allo stesso tempo e reso ancor più bello da un’interpretazione da applausi di Thomasin McKenzie, che regala al suo personaggio un’incredibile intensità.
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peer gynt
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domenica 16 giugno 2019
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vita nei boschi o vita sociale?
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La cultura americana non può fare a meno dell'utopia ecologico-libertaria di "Walden" di Henry David Thoreau, e ogni tanto quest'utopia rispunta, come un fiume carsico, in qualche film. La rivediamo oggi in questo ottimo lavoro di Debra Granik, incarnata da un padre, che fugge la società traumatizzato dalla guerra, e dalla sua figlia adolescente, che fugge dalla società perché vive con suo padre, che ama e rispetta, e conosce solo questa realtà. Ma i loro sono percorsi diversi, sono età diverse, e la vita la vedono con occhi diversi, la loro scelta di vita nei boschi non ha nulla in comune e non potrà che condurre ad una separazione.
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La cultura americana non può fare a meno dell'utopia ecologico-libertaria di "Walden" di Henry David Thoreau, e ogni tanto quest'utopia rispunta, come un fiume carsico, in qualche film. La rivediamo oggi in questo ottimo lavoro di Debra Granik, incarnata da un padre, che fugge la società traumatizzato dalla guerra, e dalla sua figlia adolescente, che fugge dalla società perché vive con suo padre, che ama e rispetta, e conosce solo questa realtà. Ma i loro sono percorsi diversi, sono età diverse, e la vita la vedono con occhi diversi, la loro scelta di vita nei boschi non ha nulla in comune e non potrà che condurre ad una separazione. Ma quanto sofferta! Granik è regista e sceneggiatrice abile, non solo perché riesce ad evitare qualsiasi caduta nel manicheismo (non ci sono cattivi, nemmeno gli assistenti sociali, che fanno del loro meglio per aiutare padre e figlia ad integrarsi) e anche perché ha l'intelligenza di lasciare poco al dialogo e molto agli sguardi, ai gesti. Gli attori la servono benissimo e il bosco è lì, bellissimo e profondo, a ricordarci che tutti, o prima o dopo, abbiamo sognato quest'utopia irrealizzabile. Ma tutti dobbiamo invece vivere nella società condizionante che abbiamo contribuito a creare. "Ce la caveremo?" chiede la figlia al padre. "Ne trarremo il meglio" risponde lui, in una pausa di serena interruzione dei suoi traumi. E così faremo anche noi: ma tenendo sempre vivo nel nostro cuore (come fa la protagonista nella scena finale del film) il mito irenico-paradisiaco della vita nei boschi.
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nuttyn
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mercoledì 17 aprile 2019
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una metafora sulla conquista dell'indipendenza
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Will (Ben Foster) e la figlia quindicenne Tom (Thomasin Mc Kenzie) vivono isolati e illegalmente in un lussureggiante parco pubblico di Portland. Will soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) - in seguito al servizio militare prestato in Iraq - e nella vita isolata immersa nella natura sembra aver trovato un sollievo alla sofferenza. Quando uno jogger si accorge della loro presenza nel parco, Will e Tom sono obbligati dalle autorità a stabilirsi in città, in un’abitazione messa a disposizione dai servizi sociali; Will non riesce, però, ad ambientarsi e si avventura nuovamente nei boschi, portando con sé la figlia, che lo segue a malincuore.
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Will (Ben Foster) e la figlia quindicenne Tom (Thomasin Mc Kenzie) vivono isolati e illegalmente in un lussureggiante parco pubblico di Portland. Will soffre di Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD) - in seguito al servizio militare prestato in Iraq - e nella vita isolata immersa nella natura sembra aver trovato un sollievo alla sofferenza. Quando uno jogger si accorge della loro presenza nel parco, Will e Tom sono obbligati dalle autorità a stabilirsi in città, in un’abitazione messa a disposizione dai servizi sociali; Will non riesce, però, ad ambientarsi e si avventura nuovamente nei boschi, portando con sé la figlia, che lo segue a malincuore. Dopo varie e spiacevoli vicissitudini, i due s’imbattono in una comunità che li accoglie benevolmente e mette a loro disposizione un alloggio. Tom inizia a integrarsi con gioia nel nuovo ambiente ed è attratta dall’opportunità di dare un diverso significato alla sua esistenza. Will però, sempre più irrequieto, dopo qualche giorno, tenta ancora una volta di convincere la figlia che l’unica possibilità per stare bene è di vivere con lui nella natura, lontano dal mondo civile, e la costringe a seguirlo nel sentiero del bosco. Tom però non vuole lasciare la comunità, e, dopo aver abbracciato il padre in lacrime, lo abbandona al suo destino, volgendogli le spalle per tornare fra la gente e iniziare il suo viaggio verso il futuro e l’indipendenza.
Liberamente tratto dal romanzo “My Abandonment” di Peter Rock, Senza lasciare traccia collega fra loro diversi filoni tematici cari alla regista Debra Granik. Come nel ruvido e toccante Un gelido Inverno (2010) le avventate e irresponsabili azioni di un padre ricadono sulla giovane figlia, che, da sola, riesce a trovare la forza interiore necessaria per reagire a una situazione sempre più pericolosa, superando faticosi ostacoli. In Stray Dog (2014) il protagonista, questa volta un reduce del Vietnam, vive una condizione interiore di estremo disagio che lo tormenterà per il resto della sua esistenza, ma che però, al contrario di Will, trova proprio nel rapporto con gli altri un modo per stare meglio con se stesso.
Storie di emarginati, dunque, mossi da volontà di riscatto, desiderio d’indipendenza e alla ricerca di un significato che dia valore alla loro esistenza; storie narrate con intelligenza e sensibilità, per far riflettere e dimostrare che tovare vie di uscita da situazioni anche molto difficili non è impossibile, se riusciamo a capire cosa è meglio per noi e se abbiamo la determinazione, la motivazione e il coraggio per fare le giuste scelte.
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chiara
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sabato 8 dicembre 2018
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tremendamente orribile
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Se avessi avuto la possibilità di votare " in negativo " l'avrei fatto molto volentieri. Ho atteso per due strazianti ore il momento di svolta che non è mai arrivato. Troppe scene inutili sul paesaggio che il regista avrebbe potuto elidere. La trama non ha uno sviluppo e non ci è fornita alcuna informazione riguardante i protagonisti: alla fine del film non si sanno nemmeno i nomi dei personaggi principali. Le uniche scene decenti sono:
- le anziane cheerleaders della danza dei veli;
- Moto-sega, il simpaticissimo coniglio taglia XL;
- l'alveare e le sue api, metafora della vita che ha volte punge e fa male;
- la ragnatela finale.
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Se avessi avuto la possibilità di votare " in negativo " l'avrei fatto molto volentieri. Ho atteso per due strazianti ore il momento di svolta che non è mai arrivato. Troppe scene inutili sul paesaggio che il regista avrebbe potuto elidere. La trama non ha uno sviluppo e non ci è fornita alcuna informazione riguardante i protagonisti: alla fine del film non si sanno nemmeno i nomi dei personaggi principali. Le uniche scene decenti sono:
- le anziane cheerleaders della danza dei veli;
- Moto-sega, il simpaticissimo coniglio taglia XL;
- l'alveare e le sue api, metafora della vita che ha volte punge e fa male;
- la ragnatela finale.
In particolare ritengo doveroso avvisare il pubblico interessato a visionare il film che:
- potrebbe manifestarsi attacchi di sonnolenza improvvisa;
- crisi di panico in cui ci si pone il seguente dilemma: siamo noi scemi a non capirci nulla o è il film che fa proprio schifo?
P.S. Cara Debra Granik, hai mai pensato di cambiare mestiere?
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scrignomagico
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mercoledì 28 novembre 2018
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la carezza di un tormento
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Struggente percorso doloroso e intimista.
Se riesci a stare dentro quella lentezza e quello sguardo perso di sofferenza senza appigli, ti rimane un sapore amaro e sfuggente di impotenza, di destini senza soluzione, di vite sfiorate e mai raggiunte.
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Struggente percorso doloroso e intimista.
Se riesci a stare dentro quella lentezza e quello sguardo perso di sofferenza senza appigli, ti rimane un sapore amaro e sfuggente di impotenza, di destini senza soluzione, di vite sfiorate e mai raggiunte.
E resti in silenzio ad ascoltare fino all'ultima nota, con quel groppo in gola che poi se ne andrà, ma non senza averti lasciato qualcosa dentro. Forse per sempre.
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carloalberto
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martedì 20 novembre 2018
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fuga dagli uomini
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo.
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo. Metafora degli atteggiamenti delle diverse età rispetto alla vita, l’incantata meraviglia della fanciullezza a contrasto con l’umore cupo e chiuso dell’età adulta. Fa da sfondo la natura, al contempo comprimaria e partecipe al dramma, sia quando è vissuta con rispetto dal duo padre figlia in fuga dagli esseri umani, sia quando è sfruttata e piegata alle utilità dell’uomo ed in questo senso risultano significative le scene dell’apicoltrice, dell’allevatore di conigli e della raccolta di alberi di natale. I personaggi seguono ognuno la propria strada, come a voler dire che non c’è una sola via ma infinite, a seconda della prospettiva che si assume. Il punto di incontro può essere soltanto occasionale e caduco come una canzone country ascoltata attorno a un falò, intonata da un vecchio hippj accompagnato da una chitarra. In sintesi, il film è drammatico e riflessivo, ma più bello esteticamente che avvincente dal punto di vista emotivo.
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carloalberto
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martedì 20 novembre 2018
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fuga dagli uomini
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo.
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Magnifica prova di Ben Foster, nel ruolo di un veterano traumatizzato dalla guerra, che decide di chiudere per sempre i ponti con ogni tipo di comunità umana, coinvolgendo la figlia adolescente in una vita da eremita nei boschi. Non è la scelta per una vita bucolica e “sana” in armonia con la natura selvaggia, in alternativa al caotico e meccanico trantran del vivere cittadino, ma il rifiuto totale di qualsiasi contatto con gli uomini. Debra Granik racconta contemporaneamente più storie. Non c’è solo la sofferenza psicotica del protagonista, che rappresenta simbolicamente la disillusione assoluta nel genere umano, ma anche quella della giovane figlia, interpretata da Thomasin McKenzie, che segue il padre per amore e devozione, ma aspira ad una vita “normale”, animata da una aspettativa fiduciosa nei confronti del mondo simboleggia l’apertura incondizionata verso il prossimo. Metafora degli atteggiamenti delle diverse età rispetto alla vita, l’incantata meraviglia della fanciullezza a contrasto con l’umore cupo e chiuso dell’età adulta. Fa da sfondo la natura, al contempo comprimaria e partecipe al dramma, sia quando è vissuta con rispetto dal duo padre figlia in fuga dagli esseri umani, sia quando è sfruttata e piegata alle utilità dell’uomo ed in questo senso risultano significative le scene dell’apicoltrice, dell’allevatore di conigli e della raccolta di alberi di natale. I personaggi seguono ognuno la propria strada, come a voler dire che non c’è una sola via ma infinite, a seconda della prospettiva che si assume. Il punto di incontro può essere soltanto occasionale e caduco come una canzone country ascoltata attorno a un falò, intonata da un vecchio hippj accompagnato da una chitarra. In sintesi, il film è drammatico e riflessivo, ma più bello esteticamente che avvincente dal punto di vista emotivo.
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flyanto
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giovedì 15 novembre 2018
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confinati nei boschi
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Come si evince dal titolo, “Senza Lasciare Traccia” della regista Debra Granik è un film che fa intuire il fatto di vivere in clandestinità o, comunque, con la totale intenzione di non venire identificati o scoperti dagli altri.
Ed è la situazione, alquanto insolita, rappresentata in questa pellicola dove un padre ed una figlia adolescente vivono da anni nascosti all’interno di un bosco dell’Oregon, senza rivelare alla Società ed alle autorità competenti la propria presenza e conducendo una tipologia di vita parecchio selvaggia, usufruendo per sostentarsi di tutto ciò che la Natura offre spontaneamente. Non si conosce il motivo esatto di questa scelta di vita ma si intuisce che egli è un veterano di guerra, probabilmente ormai disadattato per vivere comunemente nella società contemporanea, e che la di lui moglie, nonché mamma della ragazza, è morta anni addietro, lasciandoli entrambi soli.
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Come si evince dal titolo, “Senza Lasciare Traccia” della regista Debra Granik è un film che fa intuire il fatto di vivere in clandestinità o, comunque, con la totale intenzione di non venire identificati o scoperti dagli altri.
Ed è la situazione, alquanto insolita, rappresentata in questa pellicola dove un padre ed una figlia adolescente vivono da anni nascosti all’interno di un bosco dell’Oregon, senza rivelare alla Società ed alle autorità competenti la propria presenza e conducendo una tipologia di vita parecchio selvaggia, usufruendo per sostentarsi di tutto ciò che la Natura offre spontaneamente. Non si conosce il motivo esatto di questa scelta di vita ma si intuisce che egli è un veterano di guerra, probabilmente ormai disadattato per vivere comunemente nella società contemporanea, e che la di lui moglie, nonché mamma della ragazza, è morta anni addietro, lasciandoli entrambi soli. La ragazza, sembra felicemente adattatasi a questa atipica realtà che, peraltro, ella reputa nella norma e, pertanto, giusta, ma quando essi, vengono casualmente scoperti dai rangers locali, vengono condotti in un comunità con l’intento di renderli partecipi alle attività e ad uno stile di vita più normativo. E’ così che la giovane inizia a scoprire un mondo ed uno stile di vita del tutto nuovi ed inizia ad apprezzarli ma, costretta ad assecondare la volontà paterna di ritornare a vivere nel bosco, insieme a lui fugge dalla suddetta comunità, dirigendosi verso una località boschiva più a Nord del Paese. In seguito ad un incidente in cui il padre viene ferito gravemente, il duo viene questa volta a contatto ed aiutato da un gruppo di altrettanti veterani che però vivono insieme in varie roulotte e ciò farà scaturire nella ragazza sempre di più la consapevolezza della necessità di doversi staccare dal padre e vivere la propria esistenza secondo delle norme sociali più legittime ed affrontare naturalmente le proprie future esperienze.
Quest’opera cinematografica di Debra Granik è sicuramente insolita o, più precisamente, alquanto originale per ciò che riguarda il suo contenuto. Già con il precedente “Un Gelido Inverno” la Granik si era rivelata, oltre che una brava e consapevole regista, un’autrice molto particolare per le storie rappresentate dove il protagonista al centro della vicenda è per lo più sempre un personaggio femminile che vive in solitudine o, almeno, distaccato dal resto della comunità, con uno stile di vita all’insegna della semplicità e della naturalezza più totali, volitivo e quanto mai determinato. Le ‘eroine’ di questa regista sono giovani donne che, solitamente private dell’affetto più caro come quello di una madre, sono state costrette a crescere in fretta ed a lottare contro le avversità che si presentano loro: oltre a quelle propriamente dure e spietate della natura e della vita stessa, esse devono soprattutto fare fronte all’ ostilità od alla predominante volontà degli altri. In “Un Gelido Inverno” era la cattiveria degli abitanti delle terre vicine, in “Senza Lasciare Traccia” la quanto mai ferma decisione di un padre che, per quanto amorevole nei confronti della figlia, lo rivela come un prevaricatore, per non dire addirittura una persona egoista, che decide per la ragazza uno stile di vita del tutto particolare e poco consono ad una giovane che ha il diritto e la necessità di farsi nuove esperienze.
Interessante, soprattutto come rappresentazione ed elogio di un processo inevitabile di crescita e maturazione individuale.
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freerider
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lunedì 12 novembre 2018
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discreto ma non radicale
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Non mi ha lasciato l’impressione di un’evoluzione o di un passo in avanti questo nuovo lavoro di Debra Granik, regista la cui sensibilità rimane rivolta all’America dimenticata, dove la natura è ancora selvatica e può costituire allo stesso tempo minaccia ma anche rifugio per coloro che non possono o non vogliono accettare tutte le convenzioni e le norme delle comunità organizzate complesse. A questi soggetti marginali la regista aveva già rivolto la sua attenzione nel validissimo “Un gelido inverno”, film di ispirazione squisitamente indipendente che fece pienamente centro descrivendo con abilità un contesto grezzo e violento e conducendo con fermezza una vicenda molto tesa.
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Non mi ha lasciato l’impressione di un’evoluzione o di un passo in avanti questo nuovo lavoro di Debra Granik, regista la cui sensibilità rimane rivolta all’America dimenticata, dove la natura è ancora selvatica e può costituire allo stesso tempo minaccia ma anche rifugio per coloro che non possono o non vogliono accettare tutte le convenzioni e le norme delle comunità organizzate complesse. A questi soggetti marginali la regista aveva già rivolto la sua attenzione nel validissimo “Un gelido inverno”, film di ispirazione squisitamente indipendente che fece pienamente centro descrivendo con abilità un contesto grezzo e violento e conducendo con fermezza una vicenda molto tesa.
Con Leave no trace siamo in una situazione non dissimile e nella prima parte, che presenta il quotidiano di un padre e una figlia adolescente che vivono nascosti nei boschi, ritroviamo la Granik a suo agio con l’ambiente naturale e con uno stile spoglio che si mantiene in posizione di osservazione, seppur già inizialmente emerga qualche concreta perplessità sulla effettiva sostenibilità di una sopravvivenza continuativa - e non occasionale o sperimentale - in condizioni di vita di tale precarietà. L’impostazione della pellicola si presenta subito come decisamente verista, è quindi naturale che le aspettative dello spettatrore si mantengano alte in termini di stretta verosimiglianza. Man mano che la vicenda cerca di evolvere, spingendo i due fuori dal loro habitat perchè possano affiorare le contraddizioni di una scelta così estrema, si fa strada anche una certa vaghezza direzionale, come se la costruzione narrativa non riuscisse a trainare a dovere uno spunto situazionale interessante. La stessa figura dell’uomo sembra delineata in modo abbastanza indeciso tra amore paterno, disagio psicologico, bonarietà e un certo senso di irresponsabilità ed egoismo, mentre la ragazzina, che apprendiamo essere cresciuta esclusivamente con il padre, istruita a nascondersi agli altri, vivendo alla giornata e senza aver nemmeno mai frequentato la scuola, nulla lascia trasparire di differente, nel modo di porsi e relazionarsi con gli altri, rispetto a una coetanea normalmente socializzata, infatti fin troppo facile appare il suo subitaneo interessamento e avvicinamento a degli sconosciuti, anche considerata la giovanissima età.
Insomma, l’impressione è che il film rimanga sospeso a metà tra una vocazione descrittiva autentica ma non sufficientmente radicale per farne un docufilm (alla Minervini, per intenderci) e invece una costruzione finzionale piuttosto debole e scontata (compresa una certa idealizzazione di determinate comunità e dell’inserimento in esse), che finisce per scolorire anche i personaggi.
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cardclau
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domenica 11 novembre 2018
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sulla libertà
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Il coraggioso film di Debra Granik, Senza Lasciare Traccia, mi ha fatto di primo acchito venire in mente quella strofa della canzone della prima guerra mondiale, Sui Monti Scarpazi, “… O mio sposo eri andato soldato per difendere l'imperator, ma la morte quassù hai trovato e mai più non potrai ritornar … “. Will (un equilibratissimo Ben Foster) è un veterano tornato da tali orrori della guerra, un povero che ha difeso la straricchezza dei pochi, che non vediamo ma che possiamo solo immaginare, da costringerlo ad una vita solo atta a sopravvivere a sé stesso. L’unico legame di Will, in una società, quella americana, in cui il controllo contro la temibile, perché pericolosa, diversità raggiunge dei livelli che hanno del persecutorio, è sua figlia Tom (una tenerissima Thomasin McKenzie), con la quale cerca di condividere il suo assoluto bisogno di star solo.
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Il coraggioso film di Debra Granik, Senza Lasciare Traccia, mi ha fatto di primo acchito venire in mente quella strofa della canzone della prima guerra mondiale, Sui Monti Scarpazi, “… O mio sposo eri andato soldato per difendere l'imperator, ma la morte quassù hai trovato e mai più non potrai ritornar … “. Will (un equilibratissimo Ben Foster) è un veterano tornato da tali orrori della guerra, un povero che ha difeso la straricchezza dei pochi, che non vediamo ma che possiamo solo immaginare, da costringerlo ad una vita solo atta a sopravvivere a sé stesso. L’unico legame di Will, in una società, quella americana, in cui il controllo contro la temibile, perché pericolosa, diversità raggiunge dei livelli che hanno del persecutorio, è sua figlia Tom (una tenerissima Thomasin McKenzie), con la quale cerca di condividere il suo assoluto bisogno di star solo. Will ha sviluppato, apprese durante il servizio militare, delle notevoli abilità nelle tecniche di sopravvivenza che impiega per soddisfare il suo bisogno di solitudine. A tal fine cerca di vivere sul suolo pubblico, in un parco dello stato dell’Oregon, cosa non permessa dalla legge, in una confusione tra il termine “pubblico” e “privato”. Pubblico (dal dizionario Treccani): 1. Che riguarda la collettività, considerata nel suo complesso e in quanto fa parte di un ordine civile (cittadinanza o nazione); 2. Che è di tutti, che è comune a quanti fanno parte della collettività; 3. Che è accessibile a tutti, aperto a tutti, che tutti possono utilizzare, che non è di proprietà privata né riservato a persone o gruppi determinati … Ma qualcosa si inceppa nel processo, per cui Will e Tom vengono momentaneamente ingoiati, fanno cioè ritorno, nella civiltà. Soprattutto evidente è la tendenza della società a medicalizzare e a omologare tutti gli aspetti della vita, in questionari lunghissimi, di autocompiacimento, di vero/falso, per cercare di identificare le “mele marcie” ovviamente da rieducare. Will è una mela marcia non perché ha commesso qualcosa di illegale, di criminale, ma perché è un diverso. Però è un diverso innocuo, un grande nel suo genere, non ha sviluppato delle pericolose tendenze aggressive verso una società truffaldina e briccona, né le ha riversate sulla figlia, come chi umiliato nell’ambiente di lavoro torna a casa e picchia la moglie e i figli. È un padre sufficientemente buono. Come ogni relazione a due, malgrado la differenza della responsabilità, non basta che uno degli addendi sia sufficiente. Tom è una figlia splendida, che ama suo padre, e che nella compassione che prova verso di lui, giunge a fare il genitore del padre. Ma riesce alla fine a separarsi da lui. In modo adulto, non violento.
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