goldy
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sabato 10 novembre 2018
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la banalità della bontà
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Film come questo ci inducono a riflettere su quanto deprimente siano i rapporti che regolano la nostra quotidianità. Stupisce scoprire che l’ agire secondo bontà e comprensione è diventato eccezione e non regola al punto che chi vuole impostare la propria vita con regole più rispettose della nostra natura deve rifugiarsi e vivere in una foresta. Senza predicazioni, senza appartenenze, senza professioni di fede, senza lanci di messaggi salvifici , il film ci ricorda di provare a essere semplicemente. umani.
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eugenio
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venerdì 12 ottobre 2018
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un padre, una figlia nel bosco della loro anima
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Sfiorava almeno nei primi trenta minuti il capolavoro questo film di Debra Granik, per la bellezza dell’ambiente naturale, per il suono del silenzio, per il rapporto quasi simbiotico tra un padre e una figlia che ricorda molto quello in The road di Cormac McCarthy di qualche anno fa.
Solo che in questo film non esiste un dramma apocalittico. Siamo lontani dalle atmosfere di invasioni aliene, di misteriose radiazioni che hanno annullato l’umanità riducendola in polvere. No, la pellicola è ambientato nei giorni nostri ma sospesa in un’atmosfera quasi a-temporale, negli angoli più reconditi, tra foreste vergini e luoghi permeati dal grande fascino, severità e sacrificio.
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Sfiorava almeno nei primi trenta minuti il capolavoro questo film di Debra Granik, per la bellezza dell’ambiente naturale, per il suono del silenzio, per il rapporto quasi simbiotico tra un padre e una figlia che ricorda molto quello in The road di Cormac McCarthy di qualche anno fa.
Solo che in questo film non esiste un dramma apocalittico. Siamo lontani dalle atmosfere di invasioni aliene, di misteriose radiazioni che hanno annullato l’umanità riducendola in polvere. No, la pellicola è ambientato nei giorni nostri ma sospesa in un’atmosfera quasi a-temporale, negli angoli più reconditi, tra foreste vergini e luoghi permeati dal grande fascino, severità e sacrificio.
Leave no trace, Senza lasciare traccia, dal romanzo My abandonment di Peter Rock, nelle sale dall’otto novembre è una storia senza antagonisti, almeno non evidenti. C’è un padre, Will (Ben Foster) veterano di guerra in Iraq, affetto da disordine post-traumatico e una figlia adolescente Tomasine (Thomasin Mc Kenzie), abbreviata androginicamente in Tom.
Will ha rifiutato ogni forma di sussidio sociale, non sopporta il confino in enti predisposti e vive con Tom ai margini del mondo, in un rapporto con la natura istintivo, di sopravvivenza. Dal canto suo la figlia è cresciuta con Will fin dall'infanzia a seguito della morte della madre e manifesta un legame quasi viscerale nei confronti di un’autorità che vede sì precaria ma al tempo stesso, necessaria alla sua sopravvivenza. Will è un padre amorevole che nonostante il disturbo mentale, le insegna la letteratura così come il gioco degli scacchi e la caccia, non lasciandola mai sola. I due vivono come rapaci avvinghiati alla vita, dormono insieme mantenendo il calore in una foresta che è loro dimora.
Tutto cambia quando il loro “isolamento dalla società” viene scoperto e reso pubblico. Le autorità impediscono a padre e figlia di tornare nel silvano ambiente, relegandoli in un centro sociale e ad un’istruzione regolare per la fanciulla. Una vita negli schemi che a Will non piace. Con l’evidente conseguenza della fuga forzata anche per Tom che pian piano iniziava ad abituarsi a quella nuova esperienza di socialità, di confronto, di istruzione.
Il ciclo tenderà a ripetersi, di paese in paese, di bosco in bosco trasformando l’esistenza del duo in una peripatetica, consumata, lunghissima fuga dai tormenti di guerra e da quell’indipendenza di Tom, sempre più forte e necessaria per la sua maturità futura.
Senza lasciare tracciapuò sembrare superficialmente il classico mito del buon selvaggio incapace di integrarsi nella società moderna, una specie di versione meno edulcorata di quello che fu due anni fa Captain Fantastic (anche lì c’era una famiglia “sui generis”) dai toni non grotteschi e accentuatamente drammatici.
In realtà è qualcosa di più. La regia pone sì l’accento a un taglio docu-drammatico, con steady-cam che osserva intimamente il legame tra padre e figlia ma, grazie alla genuina autenticità della performance di Foster e McKenzie, non indugia assolutamente sul trauma del veterano che viene reso manifesto attraverso gli occhi e lo sguardo silenzioso del dolorante padre. Non ci sono parole inutili: il dialogo tra padre e figlia è ridotto al minimo. Si intendono con un semplice sguardo e la dinamica tra di loro è la base su cui la regista costruisce una storia di difficile etichettatura.
Senza lasciare traccia sfugge infatti alla locuzione propriamente detta di dramma e anche di road-movie. Ci sono sì questi elementi ma nessuno domina sull’altro.
Il risultato è un ibrido, senza effetti speciali, che mostra la realtà così come è, nella sua linea d’ombra che Tom supererà presto per emergere da dal bozzolo dell'adolescenza alla maturità di una farfalla sino alla commozione che diventa consapevolezza.
Eppure proprio questo limita in qualche parte la pellicola. Senza lasciare traccia sfiora appunto “il capolavoro” senza tenderlo per quel qualcosa che suona alla fine un pò forzato ma necessario.
Resta comunque una grandissima prova di recitazione, quasi teatrale, con palcoscenico la natura, la foresta dell’Oregon, in ogni forma.
E scusate se è poco.
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gianleo67
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martedì 9 ottobre 2018
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una mosquito coast tra i boschi dell'oregon
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Vivere fra i boschi di un parco nazionale vicino Portland è per il veterano Will e la figlia adolescente Tomasine, l'unico modo in cui l'uomo sente di potersi ancora rapportare con la società e con un mondo di bisogni superflui che vive come una opprimente e angosciosa prigionia. Quando vengono scoperti dalle autorità, inizia per loro una trafila burocratica fatta di colloqui psicologici, assistenti sociali e reinserimento istituzionale. Il desiderio di libertà e la fuga verso un nuovo Eden sono però sempre a portata di mano. La decrescita felice e la ricerca di un rapporto con la natura più autentico ed essenziale, sono tematiche facilmente cooptate dal cinema Indie del nuovo secolo; la risposta quasi naturale ad una crisi di identità che ha investito la società americana (e non solo) alle prese con le sperequazioni economiche e sociali ai tempi delle guerre per il l'oro nero e del più grande default finanziario causato da politiche neo-liberiste dissennatamente bipartisan.
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Vivere fra i boschi di un parco nazionale vicino Portland è per il veterano Will e la figlia adolescente Tomasine, l'unico modo in cui l'uomo sente di potersi ancora rapportare con la società e con un mondo di bisogni superflui che vive come una opprimente e angosciosa prigionia. Quando vengono scoperti dalle autorità, inizia per loro una trafila burocratica fatta di colloqui psicologici, assistenti sociali e reinserimento istituzionale. Il desiderio di libertà e la fuga verso un nuovo Eden sono però sempre a portata di mano. La decrescita felice e la ricerca di un rapporto con la natura più autentico ed essenziale, sono tematiche facilmente cooptate dal cinema Indie del nuovo secolo; la risposta quasi naturale ad una crisi di identità che ha investito la società americana (e non solo) alle prese con le sperequazioni economiche e sociali ai tempi delle guerre per il l'oro nero e del più grande default finanziario causato da politiche neo-liberiste dissennatamente bipartisan. Se è facile pensare al paradigma storia vera- racconto (auto) biografico - traslazione cinematografica che ha decretato la fortuna nazional-popolare e il variegato merchandising del pluriprepiamo esordio di Into the Wilde o il facile appeal del più recente padre chioccia del Viggo Mortensen di Captain Fantastic, esempi più defilati di questa deriva antisistema vanno ricercati negli Indie drama settari e comunardi di The East e Martha Marcy May Marlene, dove l'utopia di una fuga dalla società celano l'alienazione di chi non sa più vivere secondo regole precostituite, cercando di ristabilire un nuovo ordine e un delirante dispotismo che non può che risolversi nell'ingiustizia e nella rovina (The Mosquito Coast). Traendo spunto dalla sottigliezze del soggetto letterario, qui le ragioni del reduce interpretato dal convincente Ben Foster (Lone Survivor) sono assai più sfumate (un ritaglio di giornale verso la fine del film vorrebbe spiegare qualcosa), mettendo sul piatto con efficace capacità descrittiva e dialoghi privi di retorica la lotta impari dell'uomo contro le forze normalizzatrici che assediano un dominio silvestre ritagliato al di fuori del perimetro urbano, insidiando una responsabilità genitoriale conbattuta tra la gestione delle risorse trofiche e l'educazione filiale, tra gli impalpabili fantasmi della memoria e le concrete minacce dell'istituzionalizzazione coatta. Diviso idealmente in tre parti (la vita nei boschi, il reinserimento, la fuga in un nuovo Eden) è un film che pur nello schematismo narrativo ed in qualche buco della storia, si confronta con una realtà dolorosa e urgente, chidendosi se sia giusto e possibile vivere isolati da una società che si avverte come una gabbia (come la tela di ragno che fa capolino nelle inquadrature iniziali e finali) e se questo malinteso concetto di libertà possa essere imposto a chi (la figlia di una delicata Thomasin McKenzie) avrebbe diritto ad una maggiore stabilità e sicurezza familiari; la risposta passa da un distacco forzato, dalla solita comunità hippie che rappresenta il trait d'union tra antipodiche filosofie di vita e dalla bellissima scena finale di una fuga silvestre di un animale evoluto che decide di farsi di nuovo largo tra il fitto sottobosco di felci e rosacee da cui era emerso all'alba di una primigenia civiltà. Presentato al Sundance Film Festival 2018 ed al Festival di Cannes 2018, è stato premiato per la migliore sceneggiatura al nostrano ed insulare Taormina International Film Festival 2018.
I pledge my head to clearer thinking, my heart to greater loyalty, my hands to larger service, and my health to better living, for my club, my community, my country, and my world
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