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Haneke, stile inconfondibile anche se il riso è amaro

di Roberto Nepoti La Repubblica

Finita la lunga tournée per i festival più prestigiosi (a partire da Cannes, a maggio), arriva sui nostri schermi l'opus 13 di Michael Haneke, ritratto di borghesia in nero interpretato dagli attori prediletti del regista austriaco. Protagonista una famiglia della upperclass di Calais: Georges, ottuagenario patriarca sull'orlo della demenza; sua figlia Anne, workaholic manager di un'impresa di costruzioni; il figlio Thomas, divorziato e padre della tredicenne Eva; il nipote Pierre, l'erede indegno. Già in equilibrio precario, le sorti famigliari collassano a causa di due eventi: il trasferimento a villa Laurent di Eve, la cui madre è ricoverata per un misterioso avvelenamento, e la morte di un operaio per la negligenza di Pierre. Qualcuno ha storto il naso davanti a Happy end, accusando Haneke di ripetitività e cinismo programmatico Ma se il "cinismo" è una certa visione della borghesia come nido di vipere, simile a quella di autori celebrati quali Luis Bunuel o Claude Chabrol, ebbene: in Haneke "ripetitività" non significa altro che "stile". Uno stile personale e inconfondibile, oltreché ammirevole, che sarebbe un delitto cambiare. Il film ne riassume i caratteri. Innanzitutto la scelta di fornire allo spettatore più informazioni che ai personaggi (a cominciare dalle immagini del prologo sull'interfaccia di uno smartphone), per installare un senso di straniamento tra lui e l'universo rappresentato. Il che non impedirà poi - anzi - al regista di far intervenire situazioni impreviste e ribaltamenti delle attese. Si veda ad esempio il personaggio di Pierre, pecora nera della famiglia ma fino a un certo punto. O ancor più, sul piano del linguaggio, la lunga sequenza del nonno che costeggia in carrozzina una via trafficata, innescando nello spettatore ipotesi errate (un po' come la scena del piccione in Amour, capolavoro cui rimanda direttamente anche il personaggio di Trintignant). E poi c'è l'elemento sempre trascurato quando si parla del cinema di Haneke, anche se lui non si stanca di ricordarcelo. L'umorismo, lo humour nero, a tratti ai limiti della farsa. Non roba per tutti i palati, forse, ma che vale la pena assaggiare.
Da La Repubblica, 30 novembre 2017


di Roberto Nepoti, 30 novembre 2017

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