Appare subito difficile l’impresa di Viviane in un Paese come Israele in cui il contrasto tra religione di Stato e laicismo e parallelamente tra maschilismo e libertà di audeterminazione della donna è totalmente squilibrato. L’assenza del matrimonio civile, e di conseguenza la competenza esclusiva dei tribunali rabbinici in tema di divorzio della donna la dicono lunga sulla precaria condizione femminile in quel Paese, generalmente additato come esempio di modernità e di funzionalità democratica.
Procedendo oltre, la causa di divorzio intentata dalla donna dipende imprescindibilmente dal consenso del marito, non essendo la sentenza dei giudici- rabbini esecutiva senza quell’adesione, a meno che il marito venga meno ad alcuni obblighi previsti dalla legge (che in materia di diritto familiare recepisce in toto la legge ebraica), e questo non è il caso in esame.
La verità è che Viviane non ama più il marito, da tempo è fuori casa, conduce una vita esemplare, si occupa dei figli, non frequenta altri uomini. Ha lottato invano per decenni per ricevere un’attenzione concreta, un amore “fattivo” e non una presenza neutra e sbiadita dal compagno di vita, che, non trovandosi in alcuna condizione impeditiva, è inattaccabile e, forte di questo, rifiuta il consenso. L’asserita incompatibilità di Viviane di convivere con quell’uomo non lascia altra possibilità che adire il tribunale rabbinico, pregiudizialmente contrario –sulla base della legge della Torah- al divorzio e comunque obbligato a tentare il tutto per tutto per una riconciliazione.
Tutto si svolge in un’aula giudiziaria e, per l’atteggiamento dilatorio dei giudici, la causa procede a rilento e durerà ben 5 anni. Una kermesse che diventa sempre più una battaglia senza esclusione di colpi, sortite a sorpresa, pressioni psicologiche, basse insinuazioni, toni mutevoli fino all’ira, alla disperazione, alla commozione, in un contesto da thriller ad altissimo voltaggio emotivo, dove solo l’intervento ameno di qualche testimone allevia la palpabile tensione.
Al centro di tutto sta il coraggio di una donna laica, bella, onesta (secondo i dettami della morale e della legge ebraica) protesa a far valere le proprie ragioni in termini di libertà di scelta in una fossa dominata da leoni- uomini schierati dalla stessa parte, tutti tranne uno a cui sono interamente affidate le scarse speranze di vittoria della querelante. L’incomprensibile perseveranza negativa del marito e lo scontro che ne deriva surriscalda gli animi fino all’esasperazione alimentata anche dalla durata infinita della vertenza, che infine si chiuderà con un compromesso. Per alcuni amaro, per altri soddisfacente.
Una stanza bianca ma opaca ospita un processo che fin da subito appare segnato da un esito pressoché scontato. Un micro mondo dove le azioni e reazioni si inseguono senza tregua e a tutti è data la possibilità di esprimere la propria posizione. Nello scontro generale si stagliano le figure trainanti dei due difensori, l’uno nuovo al quel ruolo e pronto ad ogni sottile perfidia pur di salvare l’onore del fratello imputato, l’altro, avvocato, sostenuto da una crescente passione forse non soltanto professionale, ligio ai doveri di etica deontologica e recalcitrante ad una visione legata da vincoli e lacciuoli posti dal rigore e dalla cieca ritualità della legge religiosa. I punti di vista dei personaggi circolano senza sosta e sono sostenuti dalla macchina da presa sempre in asse tra chi guarda e chi è guardato, il che porta ad inquadrature irrituali, dal basso verso l’alto e viceversa, di fianco, che assecondano l’alternarsi degli sguardi. Un dinamismo attenuato solo dai frequenti primi piani, soprattutto della querelante, oggetto di sguardi ambigui e capace di trasmettere ad una corte bigotta ed intransigente una involontaria sensualità anche con il solo sciogliersi i capelli. Un’eroina forte e fragile, in balia di forze sovrastanti ma mai rassegnata a perdere la propria identità di donna pugnace fino allo stremo.
I due registi israeliani (fratello e sorella) disegnano un quadro feroce delle dinamiche dei rapporti di genere nel loro Paese, consentendo il massimo di confronto tra tesi diverse , creando magistralmente un clima di tensione che risucchia anche nei momenti di pausa tra un’udienza e l’altra lo spettatore, quasi che volesse farsi carico della frustrazione e dell’iniquità di quell’esperienza, della crudeltà del tempo che (non) passa, e nel contempo del fardello di protervia di un mondo maschilista che non rinuncia neanche davanti a tanta sofferenza a mantenere l’ultima parola, quella decisiva, perché così è scritto.
La coppia di registi, di cui lei è anche meravigliosa protagonista, sfiorano il capolavoro avvalendosi di un cast a livelli di rara eccellenza, di uno stile innovativo nell’uso della macchina da presa, di una perfetta fluidità del racconto, di una capacità notevole di gestire i movimenti dei personaggi ed i registri tonali, di dialoghi mai vacui, questa volta efficaci anche grazie ad un doppiaggio all’altezza. Splendido.
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