Benvenuti a Gomorra, l'inferno in terra
di Paolo D'Agostini La Repubblica
Un film che si farà ricordare, questo che è il sesto di Matteo Garrone, autore partito in sordina con i suoi primi tre film schivi e appartati (come è lui, in persona) ma già portatori di un punto di vista originale, e poi decisamente decollato con gli altri due "L'imbalsamatore" e "Primo amore". Un film, Gomorra, che sarà difficile dimenticare e che non può lasciare indifferenti, proprio come il libro dal quale è tratto, il docu-romanzo di Roberto Saviano.
Dalla sterminata materia che percorre il libro secondo un ordine non narrativo e non lineare, il regista (quarantenne romano, mentre Saviano è napoletano e molto meno che trentenne al momento della pubblicazione) ha tirato fuori solo alcuni suggerimenti e segmenti.
Il film è fatto di cinque nuclei o storie, sebbene l'adattamento allo schermo - ben deciso e definito nel suo dare luce, voce, faccia, suono, ambientazione e ritmo a ciò che era stato reso dalle parole scritte - assecondi lo stesso metodo casuale, di sviluppo non lineare, senza inizio e senza fine. Solo una geometrica corrispondenza: i 135 minuti di film si aprono e si chiudono su una sparatoria, anzi su un'esecuzione, con le stesse modalità di banale ferocia, di ordinaria efferatezza.
Tra le storie spiccano, anche per efficacia degli interpreti, quella di don Ciro (Gianfelice Imparato) e quella di Pasquale (Salvatore Cantalupo). Don Ciro è colui che, nell'articolata catena di competenze e gerarchie, ha l'incarico di fare pazientemente il giro delle famiglie degli affiliati al clan che sono finiti in galera per recapitare loro la mesata; e fa di tutto per vivere e comportarsi come un grigio e metodico contabile diligente e distaccato.
Pasquale è un sarto di qualità, anello fondamentale della catena che lega l'alta moda al lavoro nero tramite le cosche; e non per ribellione ma solo perché lusingato dalla richiesta cede alle insistenze della concorrenza cinese che lo reclama come istruttore del suo esercito di lavoranti clandestini. Ma tutto si paga, tutto, in questo universo dove conta solo schierarsi e l'alternativa è secca tra dominare e subìre, impone una scelta.
Le altre storie non sono meno pazzesche e penetranti. A partire da quella, anche la sola che contenga una minima e fievole luce di alternativa, dove il giovane laureato Roberto capisce per che cosa e per chi sta lavorando - Franco (Toni Servillo), impeccabile completo di lino e auto di classe, manageriale trafficante di rifiuti tossici - e scende dal carro.
Narrazione impassibile, osservazione da entomologo, esplosioni di orrore e di follia mischiate alla quotidianità perché sono la quotidianità di un "sistema" di cui vive (e muore) non solo una circoscritta banda di delinquenti ma una vasta comunità, con ramificazioni che arrivano dappertutto. Lecito naturalmente appellarsi o appigliarsi a tutti i riferimenti di rito, dai modelli coppoliano o scorsesiano a quello del nostro grande Rosi. Ma è tanto vero che Garrone esprime un punto di vista e uno sguardo che il suo cinema e il suo film non somigliano a niente.
Da La Repubblica, 16 maggio 2008
di Paolo D'Agostini, 16 maggio 2008