La casa dalle finestre che ridono |
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Un film di Pupi Avati.
Con Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Giulio Pizzirani, Francesca Marciano.
continua»
Giallo,
durata 110 min.
- Italia 1976.
MYMONETRO
La casa dalle finestre che ridono
valutazione media:
3,86
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Avati dirige con mestiere un giallo bello corposo.di Great StevenFeedback: 70023 | altri commenti e recensioni di Great Steven |
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lunedì 5 maggio 2014 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
LA CASA DALLE FINESTRE CHE RIDONO (IT, 1976) diretto da PUPI AVATI. Interpretato da LINO CAPOLICCHIO – FRANCESCA MARCIANO – GIANNI CAVINA – VANNA BUSONI – ANDREA MATTEUZZI – BOB TONELLI – PIETRO BRAMBILLA – INES CIASCHETTI § Scritto dal regista col fratello Antonio (anche produttore), G. Cavina e Maurizio Costanzo, è una mystery story con venatura thriller che vira verso il cinema dell’orrore più blando e vacuo. Un pittore pazzo muore suicida dopo aver dipinto in una chiesa della campagna ferrarese un san Sebastiano. Anni dopo il giovane restauratore Stefano, incaricato di riparare l’affresco, scoprirà segreti inquietanti e sottostorie minacciose intorno alla vicenda del quadro e, dopo varie peripezie, amori con la domestica della casa dell’affittuario, stravaganze imprevedibili e vendette terribili, riuscirà a svelare il mistero che aleggia nella bassa padana, altrimenti assolata e sonnacchiosa come in condizioni di omeostasi. Avati ebbe l’idea produttiva e creativa di trasformare i luoghi agresti dell’Emilia-Romagna nel teatro ideale per un horror movie, zona con numerosi scheletri nell’armadio e svariati misteri inconfessati da tenere celati agli occhi dei più attenti scrutatori amanti dell’occulto. Lo scopo principale del film è naturalmente quello di spaventare e incutere timori ancestrali e potenti, ma esso lo fa con incontrovertibile stile e leggiadra grazia che fanno presagire chi ci fosse dietro alla macchina da presa: un P. Avati alquanto in forma che ha toppato soltanto in una sceneggiatura troppo spoglia e poco accattivante e in un modo di condurre la vicenda troppo compiaciuto e auto-compiacente, perdendo in suspense (che comunque abbonda e non si fa pregare per intrigare lo spettatore) e peccando di estetismo raffinato e ricercato. A parte questi due grossi difetti (i principali, per lo meno), la pellicola si distingue per un’ottima fotografia (Pasquale Rachini), che raffigura sullo schermo i paesaggi maestosi eppure sempre terreni della campagna emiliana; per delle musiche (Amedeo Tommasi) tenebrose e incalzanti; per una durata non eccessiva che fa apprezzare nella sua complessità questo film con tendenze cadaveriche, mistiche e occultatrici. Ricorso al doppiaggio per cambiare la voce agli attori stranieri che parteciparono alla produzione. Ricevette un premio nel 1979 e dopo alcuni anni si trasformò in un cult del cinema di nicchia italiano che da sempre è considerato dalla critica come un crogiuolo di piccoli capolavori talvolta incompresi, ma puntualmente interessanti, stuzzicanti, vitali e animosi.
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