La casa dalle finestre che ridono |
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Un film di Pupi Avati.
Con Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Giulio Pizzirani, Francesca Marciano.
continua»
Giallo,
durata 110 min.
- Italia 1976.
MYMONETRO
La casa dalle finestre che ridono
valutazione media:
3,86
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Colore nerodi Flegiàs TNFeedback: 0 |
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giovedì 27 marzo 2008 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Nello sconsolante panorama del cinema italiano, e nella povertà dei suoi ricambi, il nome di Pupi Avati merita un qualche rispetto per la coerenza con cui, tra soprassalti dovuti ora alla censura ora alla distribuzione, conduce un suo discorso sull'irreale grottesco del nostro paese, di cui sono ultimi esempi La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, Bordella (che ha spunti accattivanti anche se non conclusi) e questa Casa dalle finestre che ridono, opera in cui meglio si esprimono - e si delimitano - le sue qualità e anche le sue abilità di "thrillerman" contrapposto ai sadici brividi alla Dario Argento. L'elemento più affascinante di questo film, per altri versi assai facile e modesto, è l'aver composto un intrigo-suspence ambientandolo, invece che nel solito cosmo codificato della città, in un paesino nelle valli di Comacchio, dalle parti in cui vive l'Agnese di Montaldo. In questo contorno surreale, colorato e sghembo, che non può non ricordare la follia della pittura di Cosmè Tura, gli elementi psicologici della storia assumono, proprio in virtù dell'atmosfera fisica che li circonda (il fango, le rane, le notti ombrose di nebbia), una loro rilevanza che si fa più misteriosa e anche, da un certo punto di vista, più verosimile. Insomma, a prenderlo sul serio, diciamo che questo è un ritratto deformato di una provincia italiana che ha in nuce molti passivi; a prenderlo più superficialmente diciamo che è la storia bizzarra di alcuni nevrotici e spasimanti, di quelli che solo il cinema riesce a inventare. Dunque siamo nel Ferrarese: è qui che capita, per restaurare l'affresco di una chiesa, un giovane pittore. Si rende subito conto di essere circondato da gente matta, da esemplari di una fauna mostruosa. E Avati, dall'interno e dall'esterno, pur sovrappopolando la pellicola di effetti ed effettacci, ci sa trasmettere questo tipo di impressionismo psicologico. Lo spettatore, insomma, si identifica col protagonista e con lui vive l'avventura, non ci sono altri elementi per metterlo al corrente dei "mistero". Deformando l'ottica della verosimiglianza e del naturalismo in funzione dell'effetto-thrilling che puntualmente spunta, Avati ci mostra le vicissitudini esasperate del giovane artista (ben impersonato da Lino Capolicchio): dalle prime telefonate minatorie e anonime, alla morte di un amico, allo strano comportamento di tutti coloro che lo circondano. La chiave del film sta nella figura del pittore defunto, autore dell'affresco che il giovane deve restaurare: una strana figura che - si dice - prediligesse ritrarre l'angoscia e, in particolare, gli ultimi istanti, precipitandosi presso i moribondi per carpirne gli ultimi sguardi d'agonia. Se a questo aggiungete che ben presto nasce il sospetto che egli stesso e le sue diaboliche sorelle architettassero a bella posta le morti, avrete idea del pasticcio in cui ci si trova e dei variopinti colpi di scena che la pellicola offre, anche in quantità eccedente alla bisogna. Minacciato, spaventato (e innamorato di una ragazzina che farà poi le spese del suo eroismo), il pittore intuisce che la leggenda nasconde una turpe verità di cui tutto il paese è rimasto complice e vittima. Ognuno trama nell'ombra della notte, come una anguilla. La vicenda si complica per sfociare poi in un finale spaventoso, hitchcokiano, e anche inverecondo.
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