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Ultimo aggiornamento lunedì 22 ottobre 2018
Il documentario sulle elezioni politiche che hanno portato Donald Trump al governo. Ha vinto 3 Razzie Awards, Il film ha ottenuto 1 candidatura a Writers Guild Awards, In Italia al Box Office Fahrenheit 11/9 ha incassato nelle prime 7 settimane di programmazione 52,7 mila euro e 42,1 mila euro nel primo weekend.
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Mentre la città di New York stava già festeggiando la signora Clinton, e nonostante la sbandierata preferenza di tre quarti degli americani per il programma democratico, il 9 novembre del 2016 veniva eletto presidente degli Stati Uniti d’America un uomo pubblicamente razzista, classista e misogino e privatamente ambiguo di nome Donald Trump. “Com’è potuto accadere?”, si domanda Michael Moore, e già che c’è tesse qualche importante e tragico collegamento tra la nuova presidenza e le tragedie nazionali, dalle carneficine nelle scuole all’avvelenamento di massa della popolazione nera della città industriale di Flint, in Michigan, ad opera del suo stesso governatore e primo cittadino.
Il punto di Moore è che non ha più colpa Putin di quanta non ne abbiano i democratici stessi, da Clinton al popolare Obama, fino ai sindacalisti e ai dirigenti di piccola taglia, immolati alla logica del compromesso e della moderazione anche quando lambisce la criminalità.
Forse dice cose che sappiamo già, e forse le narrazioni “alla Michael Moore”, con i siparietti ironici e la tecnica di stupire annullando in un colpo solo i sei gradi di separazione collegando, per esempio, l’ascesa di Trump a Gwen Stefani, può suonare monotona, ma non ci sono epigoni che sappiano battere l’originale e quando Moore vuole raccontare qualcosa lo sa fare ancora nella maniera migliore, incontrando le persone vis-à-vis, presidiando i luoghi in cui si muovono le cose e facendo del montaggio un uso virtuoso. Allora si potrebbe riformulare l’obiezione e dire che sappiamo già cosa dice Michael Moore, come la pensa e con quale afflato comunicativo, dondolando sapientemente tra visione apocalittica e iniezione insurrezionale, farà il suo discorso cinematografico, eppure sa mettere il dito nella piaga più dolente: proprio quel nostro essere spettatori seduti in poltrona, in contemplazione del disastro.
Come un bravo educatore, Moore incorre nel rischio di apparire noioso, fuori moda, uno che ha inventato una modalità di fare documentario, con la messa in scena di sé, che è stata ormai inghiottita e digerita dalla tivù in tutti i modi. Eppure c’è un gran bisogno che ci venga ricordato ancora e ancora che non è confidando che la costituzione ci proteggerà o che le elezioni sistemeranno tutto, che si può dormire tranquilli, perché non è già più vero.
Moore sarà anche ripetitivo ma dà il buon esempio, agendo, con lo strumento che sa maneggiare, e in questo sta il suo vero mettersi in campo, molto più che nell’uso che fa del suo volto invecchiato e ridotto a icona, utilizzabile da destra e da sinistra a seconda dei differenti comodi. I suoi film sono più appassionati e brillanti ma il loro valore è comparabile a quelle lezioni di educazione civica, che lui stesso da scolaro ammette di aver patito un po’, che oggi andrebbero riprese e ripassate in ogni dove, perché a ripassare non sia il peggio.
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Come dice giustamente Steve Bannon, si può avere una pessima opinione di Michael Moore, ma è uno che sa come si fanno i documentari, e i suoi film, spesso indisponenti e partigiani, attraggono sempre l'attenzione. "Fahrenheit 11/9" a mio avviso non è un film eccelso, ma vale senz'altro la pena di vederlo nonostante alcune pecche.
Gentile Marianna, al tuo posto avrei sollevato una vertenza sindacale o, quanto meno, una questione di prestigio. Come? utilizzare una firma come la tua per analizzare un film che in tutta l'Italia esce in una - dicesi una - saletta di periferia e, per giunta, in v.o., figurarsi la folla. Qualcosa non quadra. Avrei capito, trattarsi del solito lavoro balordo, sostanzialmente scorretto.