Kabei

1940 Tokyo. Kayo e Shigeru, uno scrittore, sono sposati da tempo e hanno due figlie. Un giorno la polizia irrompe nella loro modesta abitazione per arrestare l'uomo con l'accusa di tradimento. Ora tocca a Kayo (che le figlie chiamano Kabei) far sì che le figlie possano vivere una vita serena nonostante la detenzione del padre. Il nonno materno, ufficiale della polizia, aveva sempre contrastato il matrimonio della figlia e ora si vede anche posto sotto accusa dai colleghi perché ha un genero sovversivo. Kabei viene aiutata solo da un ex studente del marito, da sua sorella e da uno zio tanto rozzo quanto di buon cuore. Quando però la guerra con gli Stati Uniti esplode la situazione si fa ancor più difficile.
Se si giudica Kabei da un punto di vista strettamente cinematografico la valutazione può essere facilmente liquidata con l'etichetta 'melodramma storico'. Se però si riflette sulla sua provenienza allora la prospettiva cambia. Perché tra le tre potenze mondiali che scatenarono la seconda guerra mondiale il Giappone è l'unico Paese che non ha vissuto la catarsi della caduta del regime che lo guidava e della conseguente rinascita. La dinastia imperiale che lo portò al conflitto è ancora al comando anche se ora il suo potere è più formale che sostanziale. È quindi più complesso per quella cultura riflettere in modo crotico su quel periodo storico diificile. In Kabei si parla di censura, di repressione, di carcere duro, di rigide strutture familiari, di una società poco disposta ad accettare un pensiero certo non sovversivo ma solo divergente. Il film di Yoji Yamada lo fa e se, per arrivare al grande pubblico, cerca di provocare qualche lacrima di troppo, si tratta di un peccato veniale. 