“Polanski, Horowitz. The Wizards from the Ghetto” è un vero e proprio viaggio che lo spettatore compie insieme al famoso regista Roman Polanski e al fotografo (o photocomposer) Ryszard Horowitz, una coppia di amici da una vita (hanno frequentato lo stesso liceo artistico a Cracovia), sei anni di differenza l’uno con l’altro, che si ritrovano di nuovo insieme nella loro città natale, dopo oltre 60 anni.
Roman Polanski è nato a Parigi nel 1933, Ryszard Horowitz a Cracovia nel 1939, ma entrambe le loro famiglie sono state testimoni della costruzione del ghetto e delle deportazioni nei campi di concentramento dalla città polacca. A differenza dei suoi genitori, Roman Polanski riuscì a scampare all’esperienza della deportazione ed è stato nascosto più volte fino ad essere poi affidato a una povera famiglia di contadini cattolici. Horowitz invece è stato deportato piccolissimo ad Auschwitz, venendone poi salvato (uno dei più giovani) da Oskar Schindler – motivo per cui lo si può intravedere in una veloce apparizione in “Schindler’s List” di Steven Spielberg, un altro grande regista e anche lui di origini ebraiche.
I registi Kudla e Kokoszka-Romer, che firmano anche sceneggiatura e montaggio, seguono questi due amici in una serie di passeggiate e soste lungo i posti della loro città natale, registrando in presa diretta le conversazioni, ma anche la voce over di Horowitz che riflette sull’amico. Da quando Polanski è emigrato da Cracovia per diventare regista cinematografico diviso tra gli States e l’Europa, e Horowitz è fuggito a New York per intraprendere la sua carriera fotografica, i due non si sono più rivisti in patria; ma per questo bellissimo documentario sono tornati nel luogo che li ha cresciuti e li ha resi quelli che sono oggi. Seppur diversi, i due hanno avuto un percorso molto simile, entrambi, infatti, saltavano la scuola per andare al cinema o a sviluppare le prime fotografie, coltivando così la loro passione. I tormentati passi sul suolo polacco, volente o nolente matrice del proprio background artistico ed emotivo, sono le memorie che li ha portati a essere oggi nomi affermati del cinema e della fotografia.
L’odio razziale, la segregazione, la persecuzione, la lacerazione degli affetti, tutto ciò che è inenarrabile e indescrivibile, fuoriesce dai dialoghi di questi due amici in forma di ricordi della drammatica e triste giovinezza e sono rievocati da quei posti natii che in passato furono teatro dell’irrappresentabile: la piazza principale della città, una sala cinematografica di quartiere, gli appartamenti in cui si abitava, il cimitero dove sono sepolti i propri cari, la scuola ebraica, la sinagoga, il Muro della Memoria, il ghetto.
Horowitz e Polanski spesso si interrogano sul come fare/come hanno fatto a convivere con tutta questa sofferenza mnemonica, spesso anche contro la propria volontà; su come si possa conservar vividi ricordi che (non) si vorrebbero tenere, come quelli dei rastrellamenti e delle deportazioni della loro comunità ebraica polacca durante la Seconda Guerra Mondiale.
Il duo di amici sembra quasi che voglia camminare lungo una strada che è sempre in bilico dal farsi risucchiare dagli echi del passato, e allo stesso tempo bisognosa di aggrapparsi alla voglia di andare oltre il terribile incubo che essi richiamano; assaporando così la sensazione, bella seppur illusoria, di vedersi come delle persone comuni.
Una delle cose che più coinvolge di quest’opera, e ce la rende ancor più affascinante e piacevole, è che Polanski e Horowitz sorridono e ridono tantissimo, opponendo sano distacco e senso del paradosso umoristico, ad un atteggiamento vittimista. Emozioni profonde e riflessioni serie non si staccano mai da punte di divertita complicità, di fraterna amicizia, di entusiastica voglia di vivere. L’energia, la sincerità, la chimica che sprigiona il duo è eccezionale e contagiosa allo stesso tempo, e porta il documentario, ma anche le figure dei suoi protagonisti, su un altro livello; un livello che ci fa seguire con maggiore interesse qualsiasi cosa costoro si e ci dicono, e soprattutto che ci fa meglio entrare in empatia con le loro complesse personalità.
Ma affrontare il tutto con un sano distacco, è una sfida troppo ardua.
Sentire interiormente tuttora ancora forte il fatto di essere stati vittime dell’odio e della malvagità umana che ti segna la vita per sempre, è come una ferita che fatica a rimarginarsi.
Che non ti fa passare con indifferenza davanti a ciò che rivedi e che ancora conserva echi di voci e volti perduti nel tempo. Quei volti e quelle voci di chi hai voluto bene e che ti sono stato strappati via.
L'abile montaggio delle scene in presa diretta e del materiale d'archivio, fanno si che “Hometown - La strada dei ricordi” diventi molto più di un semplice documentario.
Va riconosciuto ai due registi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer il merito di aver diretto due geni, ognuno nel suo settore, rendendosi invisibili dietro la macchina da presa, così da far trasparire spontaneamente le emozioni e le riflessioni più nascoste dei due artisti; regalarci una preziosa testimonianza di un pezzo di Storia da ricordare; e soprattutto il raccontarsi di due amici con commozione, senso dello humor e una fortissima voglia di vivere che ha permesso loro di farli sopravvivere in ogni circostanza avversa dell’esistenza. Una grande lezione di cinema, di vita e un prezioso monito umanista alle coscienze assopite dell’uomo…
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