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Rassegna stampa di Youssef Chahine

Youssef Chahine è un attore egiziano, regista, produttore, sceneggiatore, è nato il 25 gennaio 1926 ad Alessandria d'Egitto (Egitto) ed è morto il 27 luglio 2008 all'età di 82 anni a Cairo (Egitto).

A. O. SCOTT
The New York Times

Youssef Chahine is an Egyptian filmmaker who was a pre-eminent figure in Arab cinema.
Mr. Chahine, who directed his first feature film, “Baba Amin,” in 1950, was an eclectic and exuberant storyteller who could move easily across a range of styles and genres. In 28 movies — the last, “Chaos,” was shown at the Venice Film Festival in 2007 — he shifted deftly from urban realism to florid melodrama, from historical allegory to musical comedy, from social criticism to autobiography.
Whether his subject was the domestic struggles of poor and middle-class Cairenes, his own youth in Alexandria, the building of the Aswan Dam or the life of the medieval philosopher Averroes, Mr. Chahine’s films reflected his cosmopolitan, humanistic sensibility, as well as his deep interest in Egyptian and Middle Eastern history and society.
In France, where Mr. Chahine’s films found an admiring audience, news of his death brought a tribute from the president, Nicolas Sarkozy. He described the director as “very attached to his Egypt but open to the universe” and said that he sought “to denounce censorship, fanaticism and fundamentalism.”

ROBERTO SILVESTRI
Il Manifesto

Il destino di Chahine: il caos perfetto? È la lotta di classe

Mi piaceva perché suscitava entusiasmo nel pubblico, dal set e dal palco, e perché non è mai stato un regista «di centro». Diceva infatti: «Ho fatto i miei peggiori film non all'inizio della mia carriera, ma nel mezzo». E poi perché ci ha ipnotizzato con i suoi film seducenti a non farci mai ipnotizzare da nessuno. Neanche dalla paura della morte.
Dopo un primo attacco cardiaco aveva già raccontato la sua (quasi) morte nel film autobiografico La memoria, del 1982. Prefigurando come sarebbe stato impossibile per chiunque, e anche nell'aldilà, arrestare, tenere ferma quella forza della natura swinging, espressiva e vitalissima, chiamata Youssef Chahine. Un corpo danzante e canterino, una personalità «a cuore aperto», affamata di vita, amore, poesia e piaceri, che, come Jacques Demy o Vincente Minnelli, era capace di trovare leggiadramente l'anello di congiunzione tra coreografia e lotta di classe, divertimento e serietà, coraggio e «salto della morte». Basterebbe rivedere Silenzio... si gira (2001), omaggio al musical classico hollywoodiano per comprendere come l'«artista nasseriano tipico», la leggenda vivente degli arabi oppressi, fosse proprio «unico» e imprendibile. Anche nell'insegnare come incastrare e beffare la morte attraverso un labirinto complesso, quel Caos, che resterà eternamente affascinante, composto da più di una quarantina di lungometraggi, d'ogni genere e specie, realizzati dal 1950, due anni prima della cacciata di re Farouk, a oggi.
La rivoluzione interrotta
E che ci hanno raccontato la «ricchezza» e l'intollerabilità della povertà, il mondo operaio, le rivolte contadine, l'indipendenza tortuosa dal Regno Unito, lo «scandalo di Suez, l'appoggio popolare perenne a Nasser, tradito dai suoi fedeli (Il passero, 1973), il doppio shock per il «maschio arabo» dell'umiliazione militare (la guerra dei sei giorni) e politica (Saddam e Camp David), le contraddizioni della borghesia egiziana, la sua schizofrenia e follia, e quella «rivoluzione perennemente interrotta», senza rinchiudersi mai nella nicchia del narratore d'elite. Anzi, dopo il fiasco commerciale del suo primo capolavoro «neorealista». Stazione Centrale (1958), Chahine aveva voluto imporre una svolta ancora più popolare alla sua ricerca. E l'avrebbe replicata anche nel 1985, realizzando un kolossal storico, Adieu Bonaparte, che fece storcere il naso ai puristi del basso costo e anche al suo amico Jean-Marie Straub, ma tendeva a frenare il crollo dell'industria cinematografica locale. Era davvero speciale Chahine. E rispetto agli altri grandi cineasti dei tre mondi, più vicino al fraseggio popolare di Atif Güney e Sembene Ousmane che a quello, più difficile e oscuro, di Glauber Rocha, Ritwik Ghatak o Satyajit Ray. Forse perché era un poliglotta oltre che un intellettuale «trans-culturale» drastico. Forse perché proveniva da una di famiglia di minoranza cristiana. E non solo perché aveva la sensibilità di Mahfuz (conosceva bene e amava più che altro i bassifondi, e sapeva parlare ai proletari d'Egitto), ma anche perché aveva avuto la fortuna di nascere a Alessandria d'Egitto, ed era involontariamente l'erede spirituale di quel «quartetto» eccentrico, anche sessualmente, formato da Kostantinos Petrou Kavafis, Lawrence Durrell, E. M. Forster e da quell'«anarchico» di Giuseppe Ungaretti. Lì era nata anche l'industria del cinema egiziano. Grazie anche altri immigrati italiani, come italiano, e ebreo «in fuga» da Mussolini, oggi dimenticato da tutti, sarà il «romano» Togo Mizrahi, gigante del musical sul Nilo, un maestro di Chahine.

ILARIO LOMBARDO
Avvenire

L’ultimo applauso a Chahine
Affacciato sul Mediterraneo, lo sguardo di Youssef Chahine era immerso nelle varie culture del mondo, senza alcun pregiudizio ma con la curiosità dell’intellettuale un po’ esule in patria. Nato nel 1926 ad Alessandria di Egitto, è morto a ottantadue anni al Cairo, dove era tornato dopo il lungo ricovero a Parigi per un emorragia celebrale.
Considerato il maggiore regista egiziano di tutti i tempi, Chahine ha inseguito il sogno di Hollywood per realizzarlo in Egitto, dove l’umore collettivo di un popolo diviso dalle contraddizioni sociali divenne lo spirito centrale dei suoi ritratti cinematografici.

GIORGIO GOSETTI

Molto conosciuto all’estero, era stato ricoverato a Parigi nel giugno scorso in gravi condizioni per un’emorragia cerebrale ed era stato operato. Caduto in coma, riportato poi al Cairo, non si era più ripreso. Nato ad Alessandria d’Egitto, figlio di un avvocato siriano, di famiglia cristiana, Chahine ha diretto più di 40 film, uno dei quali, “Il destino”, aveva sollevato grandi polemiche per il modo in cui affrontava il tema del terrorismo. L’Egitto e il Medio Oriente piangono il regista - che l’Italia aveva scoperto in età matura - come la loro “voce della libertà”.
Chahine si considerava cittadino del mondo e francese d’adozione, ma alla sua terra è sempre rimasto legato in modo totale, sentendosi interprete e bandiera di una cultura araba aperta al mondo occidentale. Cresciuto in una famiglia agiata ed educato all’occidentale, Chahine lasciò il suo paese a poco più di 20 anni per andare a studiare il cinema negli Stati Uniti, ma dopo meno di due anni fu richiamato in patria da un amico del cinema egiziano, il grande direttore della fotografia di origine italiana Alvise Orfanelli. Fu proprio quest’ultimo a offrigli, nel 1950, la possibilità di debuttare dietro la macchina da presa con l’autobiografico e giovanilistico “Baba Amin”. L’anno seguente, di nuovo al lavoro con Ibn El Nil, riceveva il suo invito per il Festival di Cannes, primo cineasta egiziano ad avere questo onore. Il suo debutto a Cannes, nell’indifferenza dei giornali e degli addetti ai lavori, in una sala semivuota e nel gelo delle autorità ufficiali fu ricostruito con spirito umoristico e un pizzico di legittimo orgoglio (il film ebbe infatti poi un’importante attenzione internazionale) dallo stesso Chahine, un anno fa, facendone l’oggetto dell’episodio inserito nel film collettivo “Chacun Son Cinema” prodotto da Gilles Jacob. A Cannes Joussef Chahine deve buona parte della sua risonanza internazionale: vi tornò a più riprese, ricevuto da maestro consacrato, fino a quando nel 1997 presentò “Il destino”, ricevendo il premio del cinquantesimo anniversario del Festival. Nel frattempo aveva realizzato, scritto e sovente prodotto un imponente massa di lungometraggi (in tutto una cinquantina) fino al recente “Il caos”, presentato lo scorso settembre alla Mostra di Venezia. Il primo riconoscimento internazionale della sua carriera gli venne però dal Festival di Berlino, dove nel 1978 vinse l’Orso d’Argento con “Alessandria... perché?”, primo capitolo di una trilogia fortemente autobiografica che avrebbe sviluppato nel 1982 e poi nel 1990 concludendola idealmente con un quarto episodio datato 2004, intitolato “Alessandria-New York”.

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