Takashi Miike è un attore giapponese, regista, sceneggiatore, fotografo, è nato il 24 agosto 1960 ad Osaka (Giappone). Takashi Miike ha oggi 64 anni ed è del segno zodiacale Vergine.
Anche in Giappone, paese noto per la sua tolleranza verso sesso e violenza espliciti - sullo schermo e sulla carta - i film di Takashi Miike rappresentano un caso.
Nato ad Osaka nel 1960, Takashi studia alla Yokohama Film and Broadcasting Institute prima di trovare lavoro come aiuto regista in pellicole tra cui si ricorda Pioggia nera (1988) di Shoei Imamura. Dopo aver accumulato una certa esperienza creativa dirigendo film per il mercato home video (il cosiddetto "V-Cinema"), fa il suo debutto cinematografico dirigendo Shinjuku Triad Society che gli valgono la nomination come Miglior regista esordiente al Directors' Guild of Japan.
Seguono altri due film sulle triadi: Rainy dog (1997) e Ley Lines (1999). Mentre completa la sua trilogia il prolifico regista trova il tempo di dirigere l'ultraviolento Fudoh - The New Generation.
The bird people in China (1998) è un film lontano da toni violenti e dà al regista la possibilità di confrontarsi con temi di evasione che lo aiutano a far conoscere il suo genio anche in Occidente: il film è infatti proiettato al London Film Festival, così come il seguente Dead or alive, un thriller di grande tensione.
Ma è il successivo Audition a catturare definitivamente il pubblico europeo, attirando una sempre più nutrita schiera di accoliti tra le fila degli estimatori di Miike. Di una prolificità fuori da ogni logica, il regista nipponico sforna a cavallo tra il 2000 e il 2002 qualcosa come quindici film, tra cui i due seguiti a Dead or alive e soprattutto Ichi the killer, follia ultraviolenta che è oggetto di culto tra i cinefili mondiali. Coi suoi film spesso al limite del sostenibile - in termini di violenza e crudeltà mostrate - colleziona negli anni numerosi riconoscimenti e presenze ai festival mondiali, e nel 2004 è a Venezia con due film: Izo e un episodio di Three... extremes. Ancora lo vedremo alla manifestazione lagunare nel 2005 con The Big Spook War. Non si sa come, trova anche il tempo di fare qualche breve apparizione come attore nei film di colleghi.
Miike Takashi è un caso pressoché unico nel panorama cinematografico attuale. Una figura bizzarra e sfuggente, allergica a ogni tentativo di classificazione, estranea a qualsiasi tipo di ordine precostituito. Miike è un'anomalia nell'industria cinematografica (asiatica e non), una scheggia impazzita priva di freni quanto carica di fascino. Una carriera registica poco più che decennale l'ha condotto dal culto tributatogli lontano dai riflettori da una nutrita schiera di fanatici dell'insolito, all'essere vezzeggiato, quando non premiato, in festival del calibro di Venezia, Berlino, Cannes, Sitges, Tokyo e Rotterdam.
L'aspetto più evidente e singolare del percorso artistico di Miike concerne la quantità di progetti realizzati. La mole di pellicole che portano la sua firma è in effetti impressionante (oltre 70 in quindici anni), figlia di un impegno indefesso e costante, frutto di uno stakanovismo produttivo che porta a considerare il regista alla stregua di un operaio, modesto esecutore stipendiato il cui unico fine è soddisfare le richieste dell'industria, e al contempo testimonianza di una vita consacrata per intero alla settima arte. Spesso e volentieri occupato in più produzioni simultaneamente, Miike sembra muoversi da un film all'altro senza apparente soluzione di continuità, accettando di buon grado ogni genere di incarico. Artefice di una filmografia tanto sterminata quanto eterogenea, nell'arco di pochi anni si è misurato con contesti produttivi differenti e per molti versi opposti (dal blockbuster al low budget, passando per la miniserie televisiva), ha affrontato praticamente ogni genere cinematografico (dal poliziesco al western, dal musical alla commedia), talvolta uniformandosi ai canoni condivisi, spesso decostruendo il genere dall'interno, dando sfogo a una visionarietà dilagante e irrefrenabile. Miike si è dimostrato capace di conciliare l'aspetto meramente commerciale e industriale del cinema con le istanze della più pura espressione artistica, affiancando fin dagli esordi pellicole altamente standardizzate a opere affascinanti e personali, pregne di una carica espressiva spesso sbalorditiva.
Miike Takashi ha fatto dell'eccesso la propria filosofia professionale; eccesso che si realizza appunto nella quantità ma che investe con altrettanta evidenza la qualità. Parte della sua fama rimane indissolubilmente legata a una rappresentazione della violenza priva di filtri, a un ostentato e divertito affronto al comune senso del pudore. Una porzione consistente della sua produzione trova fondamento in un programmatico scavalcamento dei limiti del visibile e dell'accettabile: talvolta la trasgressione è limitata nei termini di ludica provocazione o di compiacimento autoreferenziale, talvolta è gratuita e fine a se stessa, in altri casi invece scelta giustificata e parte integrante del discorso artistico. In Miike la spettacolarizzazione della violenza è un tratto caratteristico dello stile e un carattere spesso imprescindibile della poetica; il regista, facendo leva su pulsioni di indubbio richiamo per spettatori in cerca di forti emozioni, ha saputo costruirsi una discreta fama a livello internazionale, senza esimersi ciononostante dal firmare un pugno di pellicole incredibilmente leggere e delicate, a ulteriore riprova di una versatilità che non conosce confini.
Miike è una figura scomoda e inclassificabile, che in un contesto produttivo statunitense o europeo non avrebbe mai avuto modo di esprimersi adeguatamente. L'elasticità della censura giapponese (almeno per quanto concerne la messa in scena di atti cruenti) e lo spazio privilegiato riservato all'home video nel mercato cinematografico asiatico, hanno garantito al regista una discreta libertà creativa, consentendogli di emergere gradualmente ma inesorabilmente, dando sfogo, pellicola dopo pellicola, ad una verve incontenibile e sfacciata. Il tocco personale di Miike è rintracciabile sostanzialmente in ogni suo film, concentrato magari in una singola sequenza nei prodotti nati da commissioni più costrittive, centro nevralgico di aggressione allo spettatore nelle opere realizzate in contesti più liberi e personali.
Negli ultimi anni il fenomeno Miike ha preso piede con crescente irruenza, ottenendo consensi di pubblico (prima) e di critica (poi) anche al di fuori del Giappone e oltre la ristretta cerchia di appassionati. Ospite stazionario in festival internazionali, da poco oggetto di studi critici, articoli e monografie, ha saputo ritagliarsi un personalissimo e inatteso status di autore. L'opera di Miike non manca di suscitare l'ammirazione degli addetti ai lavori: il fatto che venga citato e omaggiato da alcuni esponenti dell'odierna cinematografia pulp (vedi Quentin Tarantino o Eli Roth) è indice di quanto il regista nipponico abbia influenzato il modo di percepire, inscenare e oltrepassare i limiti della rappresentazione.
L'etichetta di cineasta estremo, al pari di qualunque altro tipo di semplicistica classificazione, non esprime tuttavia in maniera adeguata la portata e la complessità del lavoro di Miike. La tensione verso gli estremi, pur essendo un'innegabile peculiarità della sua arte, se considerata in termini assoluti può rappresentare un limite invalicabile ai fini di un inquadramento storico-artistico soddisfacente, benché molti spettatori nutrano una legittima riluttanza di fronte all'esplicita rappresentazione della violenza. La singolarità del soggetto richiede una contestualizzazione più ampia che non si fermi di fronte alle apparenze (per quanto sovente sconcertanti) e tenga in considerazione l'intero arco di una carriera tanto prolifica quanto multiforme e sfaccettata, onde far emergere il valore e l'anarchica complessità di un autore inusuale come Miike Takashi.