J.G. Ballard (James G. Ballard) ha lavorato come scrittore, sceneggiatore, è nato il 15 novembre 1930 a Shangai (Cina) ed è morto il 19 aprile 2009 all'età di 78 anni a Londra (Gran Bretagna).
Per una coincidenza che farà felici i cultori del rapporto segreto che a volte s'instaura tra arte e vita, nel '73, subito dopo aver fatto uscire Crash, James Ballard fu vittima di un grave incidente stradale. Mai come allora la reazione triviale «se l'è cercata» acquistò, sfondando i limiti della volgarità comune, una luce scintillante e sinistra.
Scintillante e sinistra è stata, in effetti, l'opera di uno dei più grandi scrittori che ci erano rimasti - scrittori tout court, non solo di fantascienza o maestro del cyberpunk, come era stato facilmente etichettato. Persino del suo cancro Ballard aveva fatto un'epopea postmoderna, il suo agente, Margaret Hanbury, nell'ottobre scorso era arrivata alla Fiera di Francoforte annunciando l'esistenza di un manoscritto in itinere, provvisoriamente intitolato Conversations with My Physician: The Meaning, if Any, of Life. Il grande scrittore inglese, malato e sofferente come la società che non aveva smesso di anatomizzare, non rinunciava a indagare e riflettere neanche su di sé, anzi: «La possibilità di guardare la mia malattia è qualcosa di totalmente insperato, alla mia età». Aveva appena dato alle stampe la sua autobiografia, I miracoli della vita, un lungo e affascinante esercizio di nascondimento, e poteva tornare a scrivere e indagare su uno dei misteri che ne hanno determinato la cifra: il Corpo, i nessi con gli oggetti dentro la civiltà delle macchine, i consumi, le cure, la finzione. Una malattia che sembrava la summa di una vita.
Aveva settantotto anni, Ballard: era nato nel 1930. Ma non nell'Inghilterra madrepatria, che conobbe solo nel '46, a guerra finita, quando lui era già grande, bensì a Shanghai, dove i genitori erano andati e vivere. Un ragazzino abituato a vivere in una casetta stile cottage con dieci servitori cinesi, si trovava poi a uscir per strada, appena adolescente, e assisteva allo spettacolo meticcio di una città di per sé «iperreale», assai prima che lui cominciasse a scrivere: miscuglio tra gangster e straccioni, prostitute russe, una proporzione tra bar e bordelli sostanzialmente pari... Al momento dell'invasione giapponese tutto si rompe, verrà Pearl Harbor, verrà la prigionia di Ballard chiuso due anni nel campo d'internamento, storie che decenni dopo ispireranno il romanzo L'impero del sole, dal quale Steven Spielberg nell'84 ha tratto un film sceneggiato da Tom Stoppard. Diranno: lo scrittore apocalittico è nato lì. O forse ha ragione Martin Amis: «Semplicemente, l'Impero del sole dà forma a ciò che gli aveva dato forma».
Il resto, a Ballard, lo darà il tratto informe dell'Inghilterra ipocrita, ma anche percorsa dal boom economico, dall'esplosione delle casette a schiera, dal conflitto tra cultura dei convitti destinati ai figli dei ricchi («una prigione, ma nel campo d'internamento mangiavo meglio») e suburbs per aspiranti hooligan, contrasti da cui nasceranno molti dei suoi libri, per esempio Regno a venire, l'ultimo romanzo (2006), che i Radiohead, la band più influente, postarono sul loro sito: la storia di una rivolta contro la «civiltà del supermarket» pensata e armata nei distretti eleganti di Chelsea e nei quartieri residenziali attorno a Heathrow, da parte di una borghesia annoiata e narcotizzata dal consumo. Dissero: Ballard è diventato no global. Etichetta ridicola.
Ballard lavorò come copy, poi venditore di enciclopedie nelle Midlands, poi pilota per la Raf. La pubblicità di massa, la tecnica, le macchine, tre ossessioni che lo pervertiranno fino alla fine. C'è chi è convinto che La mostra delle atrocità, pubblicato nel ‘69, in piena psichedelia, risenta di un qualche uso di droghe, e sia comunque il suo capolavoro, il Vietnam, la psicopatologia, la pornografia, le mutilazioni seguite agli incidenti stradali, la forza equivoca dei media, le false icone del mito americano. In quel libro arrivò persino a profetizzare l'elezione a presidente Usa di un attore. Ronald Reagan verrà dopo. I Joy Division, nel pieno del post-punk, ci scrissero sopra una canzone.
Se Francis Scott Fitzgerald aveva visto nella Costa Azzurra il luogo di Tenera è la notte, per Ballard quel posto era diventato la schiera di residence di lusso tutti vetrate e parcheggi sotterranei della Super Cannes del terzo millennio, assediata da trafficanti ambigui. Se la chitarra di Clapton intonava i riff compiaciuti di Cocaine, per Ballard Cocaine Nights era solo metafora della frantumazione dell'io postmoderno. Forse la chiave resta, però, in Crash. Dove il protagonista ha un nome, James Ballard, e un destino: la seduzione ripetuta per gli incidenti automobilistici, la loro carica erotica e (auto)distruttiva, il legame perturbante che possono avere col sesso e le macchine. David Cronenberg ci fece un grande film. Baudrillard scrisse: «Crash è il nostro mondo, niente vi è “inventato”: lì tutto è iperfunzionale, la circolazione e l'incidente, la tecnica e la morte, il sesso e l'obiettivo fotografico; tutto è come una grande macchina sincrona, simulata... In Crash non c'è più finzione né realtà: l'iperrealtà le abolisce entrambe».
Da La Stampa, 20 aprile 2009
La morte dello scrittore inglese. Dalla guerra civile molecolare ai riti identitari legati al consumo, fino alla disperata rivolta contro il mondo delle merci. La lucida preveggenza di un autore che ha scelto come protagonisti dei suoi romanzi i conflitti di cui sono pervase le società contemporanee
I romanzi di James Ballard alimentano ricezioni che non ammettono mezze misure. Possono essere molto amati, oppure valutati come opere scadenti, con una scrittura algida e poco curata, dove il «non detto» dei personaggi annichilisce ogni «economia dell'attenzione». Eppure Ballard è stato un buon artigiano della scrittura, se con questo si intende la capacità di gettare luce sui lati oscuri della società contemporanee. Al di là delle qualifica di scrittore di fantascienza, Ballard è stato infatti un accurato cartografo dei conflitti sociali del presente. Non che la qualifica di scrittore di genere gli desse fastidio. Per Ballard significava solo che scrivere era divenuto il suo lavoro, come testimoniano le decine di racconti scritti per riviste di science fiction e pubblicati dagli anni Cinquanta agli anni Settanta e che meritoriamente la casa editrice Fanucci ha pubblicato negli anni scorsi. Una fantascienza tuttavia anomala, dove gli alieni costituivano sempre l'immagine rovesciata allo specchio dei terresti, incarnandone così gli inconfessati incubi.
D'altronde, il rapporto con l'altro è stata sempre una costante di questo inglese nato settantotto anni fa a Shangai. E che emerge con forza nel suo romanzo più citato (Crash, Rizzoli 1990, Feltrinelli 2004), che costituisce tuttavia un punto di svolta nella produzione di Ballard, perché il medium della relazione tra «umani» è individuato nel feticcio della società capitalistica del secondo dopoguerra: l'automobile. Da allora lo scrittore inglese comincia a misurarsi con tutte le parole chiave del pensiero critico. Il feticismo delle merci, ovviamente, terreno su cui Ballard ha frequentemente scorrazzato, fino a quel Regno a venire (Feltrinelli 2006) che mette in scena gli effetti tellurici costituiti dalle città cresciute come parassiti a ridosso dei mall, i grandi centri commerciali che finiscono per costituire l'unico spazio pubblico possibile per organizzare la rivolta contro le merci. Ma in Ballard è forte anche l'attenzione verso la dissoluzione della «forma metropoli» e la fuga verso le comunità recintate, dove la vita è pianificata attentamente, alimentando così sofisticate e, al tempo stesso, impalpabili tecnologie del controllo. Da Condominio (Urania 1976, Feltrinelli 2003) a Isola di cemento (Anabasi 1993, Feltrinelli 2007), da Cocaine Nights (Baldini & Castoldi 1997, Feltrinelli 2008) a Super Cannes (Feltrinelli 2000), la metropoli diviene il teatro per una guerra civile molecolare, esito obbligato della crisi irreversibile dell'ordine sociale capitalistico.
Ed è stata questa sua «preveggenza» che lo ha reso l'autore più amato dagli scrittori cyberpunk. William Gibson e Bruce Sterling non hanno infatti mai nascosto i loro debiti verso di lui. Un'affinità elettiva dovuta al fatto che in Ballard non c'è nessuna apologia delle virtù salvifiche della tecnologia. Per Ballard, la tecnologia è semplicemente divenuta parte integrante del vivere in società. Non c'è più quindi nessun paradiso naturale perduto da invocare, ma solo la constatazione che la simbiosi tra naturale e artificiale è parte integrante della natura umana. Cioè di quella stessa realtà sapientemente descritta dal cyberpunk, come testimoniano, per restare all'Italia, le interviste alla rivista «Decoder» e la raccolta di saggi pubblicata dalla milanese Shake.
I romanzi dell'ultimo periodo - Millennium people (Feltrinelli 2004) e Il regno a venire - si concentrano invece sulle trasformazioni sociali e politiche del capitalismo contemporaneo. Ballard prende di mira la favola della fine del conflitto sociale e di classe, sostenendo invece che la tanto mitizzata middle class è divenuta una classe produttiva, fatto che la spinge alla rivolta, che può, in pieno movimento no-global, scagliarsi contro il regime del lavoro salariato, ma anche subire una torsione razzista e sciovinista. Il bandolo della matassa da sciogliere, ma che Ballard non prova mai a sbrogliare, è cosa determina un esito piuttosto che un altro. Non è quello il compito che ha riservato a sé questo acuto cartografo delle società contemporanee. Il suo atteggiamento è sempre quello dello scanzonato ragazzo che nell'Impero del sole (Rizzoli 1986, Feltrinelli 2006) non riesce a contenere l'entusiasmo e la rabbia per gli aerei giapponesi che bombardano lo stile di vita di cui era prigioniero. Per stilare le mappe del presente occorre infatti curiosità e sguardo lucido: sentimenti e attitudine che Ballard ha sempre avuto.
Da Il Manifesto, 20 aprile 2009
Le pavillon sinistre où il avait élu domicile, dans la banlieue de Londres, était à l'image de l'ironie dont faisait preuve James Graham Ballard : un bout du monde urbain, triste et sans grâce, aussi désolé que les villes du futur dont le romancier avait si souvent fait les décors de ses livres.
Mort à Londres, dimanche 19 avril, des suites d'un cancer, le grand écrivain britannique avait choisi de vivre au milieu d'un décor qui incarnait, d'une certaine manière, sa vision apocalyptique du monde : la société moderne, expliquait-il, engendre une "banlieuisation de l'âme".
C'est là qu'il recevait, dans une pièce minuscule encombrée d'un tableau reproduisant une toile de Delvaux : une jeune femme habillée d'une longue robe y contemple un miroir infidèle, qui lui renvoie l'image d'un corps entièrement nu. Encore de l'ironie ? Pas seulement. Au-delà de son amour pour le surréalisme, Ballard s'était toujours soucié d'aller au plus près de la vérité nue. Pour lui, cette quête était passée par la science-fiction, puis par l'anticipation sociale, dont il était devenu le grand maître. Imaginatifs, plein d'humour et magnifiquement écrits, ses livres ont tous en commun d'arracher, couche après couche, les faux semblants, les mensonges et les vanités qui entourent nos pratiques et nos représentations de la modernité.
C'est par la science-fiction qu'avait débuté, dans les années 1950, cet enfant de la bourgeoisie. Né à Shanghaï, en 1930, dans une famille aisée (son père dirigeait la filiale chinoise d'une entreprise de textile anglaise), le jeune Ballard s'était essayé à plusieurs occupations (deux années d'études de médecine, puis un engagement dans l'armée de l'air) avant de trouver une place comme journaliste scientifique au sein d'un magazine anglais. Là, il avait commencé d'écrire. Des nouvelles d'abord, (reprises, pour beaucoup, dans un excellent volume paru chez Tristram, en 2008), puis des romans, à partir des années 1960. Avec, toujours, cette infinie liberté de ton qui faisait naître des images, des idées tour à tour poétiques et terrifiantes.
UN SENTIMENT D'ÉTRANGETÉ
Dès ses premiers textes, Ballard poussera jusqu'au bout des logiques de civilisation peu rassurantes. Manipulation mentale, délires sécuritaires, vertiges de consommation, désastres écologiques (dans La Forêt de cristal, l'un de ses romans les plus célèbres, paru chez Denoël en 1967, la jungle du Cameroun se minéralise peu à peu), solitude individuelle et ségrégation sociale, toutes les dérives du monde contemporain surgissaient dans ses récits. Dans son roman Millenium People (Denoël, 2005), il présentait plaisamment la fin du XXe siècle comme "une prison à régime doux, construite par des générations antérieures de détenus". La plupart du temps, l'anticipation n'était d'ailleurs qu'un moyen de mieux regarder le présent, voire le passé. Et le futur semblait un lieu très proche, presque semblable au monde connu, à un ou deux dérapages près. Pourquoi se projeter dans des univers lointains, quand le bizarre et le tordu sont là, sous vos yeux, à vous faire des signes ? Très vite, le romancier s'est écarté des histoires de Martiens et de planètes exotiques, pour se concentrer sur "la seule vraie planète étrangère", disait-il : la Terre.
La Terre et ses habitants, bien sûr, dont les mécanismes mentaux le passionnaient au plus haut point. A la différence de nombreux auteurs de science-fiction, qui se sont concentrés sur la construction d'un espace physique, lui s'est intéressé au psychisme, comme le montre d'ailleurs son usage abondant de la première personne. Souvent, il aura imaginé des situations frontières, où l'homme était menacé de perdre le contrôle de son raisonnement - et donc de lui-même.
Dans Crash ! par exemple, sans doute son roman le plus fameux parce qu'il fit scandale (le livre fut porté à l'écran par David Cronenberg, en 1996), l'écrivain met en scène un personnage fasciné par les liens entre le psychisme, la sexualité et les accidents de voiture.
Crash ! appartenait à la Trilogie du béton, comme L'Ile de béton et IGH (pour "immeuble de grande hauteur"), où l'on voit se préciser les thèmes liés à l'enfermement et aux milieux clos. Ces préoccupations, qui reparaîtront à plusieurs reprises dans l'oeuvre de Ballard (par exemple dans Super-Cannes, chez Fayard en 2001), trouvent peut-être leur source dans une expérience fondamentale pour l'écrivain : en 1942, l'enfant qu'il était fut enfermé par les Japonais dans le camp de prisonniers de Lunghua, près de Shanghaï.
James Graham Ballard en conservera toujours le sentiment de la précarité des situations, mais aussi de l'absurdité du monde. De retour en Angleterre, en 1946, il ne put jamais se défaire d'un sentiment d'étrangeté, comme s'il regardait constamment le monde occidental de l'extérieur. Et comme si la Terre, vraiment, n'était rien d'autre qu'une planète étrangère.
Le Monde, 22 aprile 2009
James G. Ballard è stato uno degli scrittori più lucidi e affilati nel Novecento, ne ha scavato le tendenze e le pieghe più segrete. Il suo sguardo ha svelato per noi ciò che avevamo sotto gli occhi e che non sapevamo vedere, ciò che conoscevamo e non sapevamo dire, ciò che ci affascinava e ci respingeva - e non sapevamo perché. Adesso che anche lui è morto, dopo William S. Burroughs, dopo Kurt Vonnegut, dopo Philip K. Dick, possiamo ben dire che il XX secolo è morto, quel secolo dominato dal «matrimonio fra ragione e incubo», secondo la pacata e terribile definizione che ne diede nel 1974, nella prefazione all’edizione francese di "Crash".
ICONE NEURONICHE
Ballard è stato uno di quegli scrittori nei quali i temi dominanti si intrecciano in maniera inestricabile: leggi di tecnologia, e ti accorgi che parla dei mezzi di comunicazione; descrive un paesaggio, ma è un frammento di pelle ingrandito ed esplorato minuziosamente; parla di elicotteri, di vecchi bunker in disuso e di cavalcavia, e sono paesaggi della mente. «Icone neuroniche sulle autostrade spinali». Non è tanto il fatto che niente sia come sembri - tutti i grandi scrittori sanno bene come far emergere da una scena apparentemente semplice significati nascosti. No, è proprio che l’interno e l’esterno in lui si rovesciano come un guanto, e lo fanno con una naturalezza sconcertante e a volte - per molti lettori - irritante. Certo, l’ispirazione è molto vicina a quella di Burroughs, ma la scrittura è completamente diversa, opposta. «In fondo sono solo un narratore tradizionale con un’immaginazione fervida», ha scritto in «I miracoli della vita», dimenticandosi di avere scritto uno dei testi di narrativa sperimentale più intricati nel Novecento, «La mostra delle atrocità».
Però dobbiamo riconoscere che aveva ragione. Dal punto di vista stilistico, «La mostra» è un’eccezione nell’insieme della sua opera. Anche il romanzo che tematicamente è più vicino a quel testo, «Crash», ha una scrittura eccezionalmente piana e distesa, come gli altri suoi romanzi. Nulla del barocchismo di Burroughs o del concitato stile di Dick. Lo scrittore a cui assomigliava di più, in fondo, rimane Vonnegut, per la tagliente ironia e quel paradossale understatement con cui sono esposti i paradossi più ostici e le verità più sgradevoli.
Nato a Shanghai nel 1930, il giovane Jim Ballard trascorse in quella città un’infanzia e un’adolescenza agiate, inglese di lingua e britannico di cultura, ma in una versione coloniale. Il suo immaginario si nutrì di quella metropoli cinese, città mediatica "ante litteram", che, scrive in «I miracoli della vita», «mi faceva l’impressione di un posto magico, di una fantasia che si generava da sola e che la mia piccola mente non riusciva mai ad afferrare». Dopo l’invasione giapponese del 1941, quel mondo crudele ma fatato svanì e venne sostituito dal campo di concentramento giapponese di Lunghua, dove Jim rimase sino all’agosto 1945. Quegli anni completarono l’apprendistato del giovane Ballard, insegnandogli la prossimità della vita e della morte ma al tempo stesso, paradossalmente, dandogli una libertà che la vita in famiglia a Shanghai non gli avrebbe mai dato.
Quando Ballard arriva in Inghilterra nel 1946, il paese gli appare straniero: conosce la lingua, e gli elementi base della cultura, ma combinati in in modo che non conosce, applicati a un contesto completamente diverso. Questo straniamento è la radice del suo sguardo così diverso, così acuto, così penetrante, sulla società e la psiche dell’uomo occidentale. James Ballard non può essere né un medico né un pilota né un pubblicitario, anche se studia medicina per due anni, per un anno lavora nella RAF in Canada e per un altro anno nella pubblicità. Può essere soltanto uno scrittore.
Si sposa nel 1955, lavora per un po’ come redattore di una rivista scientifica poi, sostenuto dalla moglie Mary e totalmente avversato dai genitori, decide di intraprendere la carriera di scrittore a tempo pieno. Dopo i primi racconti pubblicati in Inghilterra, il primo libro che lo fa conoscere davvero è il romanzo «Il mondo sommerso», del 1962. Negli anni cinquanta e sessanta Ballard scrive una fantascienza personalissima e misconosciuta, la fantascienza dello «spazio interiore», in cui la tecnologia si incide letteralmente nel sistema nervoso degli esseri umani e la malattia diventa una condizione fatata e sospesa che cristallizza il tempo.
SURREALISTI E TECNOLOGIA
Poi Ballard incontra i quadri e le poesie dei surrealisti e la nascente pop art inglese. Con «La mostra delle atrocità» (1969) gli elementi dell’immaginario ballardiano sono finalmente riuniti: tecnologia, disturbo mentale e media si intersecano per produrre il più fantastico ritratto degli anni sessanta. La guerra è finita, e l’uomo può dedicarsi a coltivare i propri piaceri più perversi. Con «L’impero del sole» (1984), che ricostruisce in modo romanzesco l’esperienza di Lunghua, arriva il vero successo commerciale. La fantascienza è esaurita, e negli ultimi anni, con «Cocaine Nights» e «Super-Cannes», le perversioni della psiche occidentale sono indagate con la lente di personalissime crime stories. E in ultimo, per nostra fortuna, Ballard fa in tempo a pubblicare, un anno prima di morire, la sua autobiografia. In cui chi lo ha amato e quelli che si avvicinano per la prima volta a lui possono ricostruire la genesi del suo immaginario e del suo straordinario sguardo sull’uomo.
Da L’Unità, 21 aprile 2009
James Graham Ballard si è spento a 78 anni dopo una lunga malattia. È stato l’ultimo genio indiscusso della fantascienza britannica. Aveva una vena cupa e catastrofica che riusciva a miscelare atmosfere oniriche a un costante senso di angoscia. Sue alcune pietre miliari della letteratura di science-fiction dedicata alle possibili apocalissi venture. Ma non solo: è suo il bellissimo e autobiografico L’impero del sole (scritto nel 1984) da cui il regista Steven Spielberg ha tratto nel 1987 l’omonimo film. Nato a Shanghai da genitori britannici durante la Seconda Guerra Mondiale, Ballard venne internato con la famiglia nel campo di prigionia giapponese di Lunghua. Da quella esperienza di sofferenza e violenza vissuta durante l’infanzia (Ballard era nato nel 1930) lo scrittore ha tratto una narrazione intensa che racconta l’abiezione umana filtrandola attraverso gli occhi dell’innocenza infantile.
Per questo la morte di questo «maestro delle apocalissi» lascia un vuoto nella letteratura, non solo di genere. Anche perché Ballard che dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, nel 1946, si trasferì in Gran Bretagna è riuscito a incarnare con la sua fantasia, le varie ansie della seconda parte del Novecento. Il primo romanzo, infatti, che gli regalerà notorietà e una relativa sicurezza economica (prima Ballard si era arrangiato facendo il venditore di enciclopedie porta a porta e arruolandosi nella Raf) è stato The Wind From Nowhere (Vento dal nulla) del 1962.
Il libro apriva una tetralogia di genere catastrofico, che incarnava benissimo il clima di paura, l’ansia da fine del mondo che era tipica degli anni della Guerra fredda. Anzi nell’immaginare questo vento mostruoso, in continua feroce crescita, che si placa solo quando l’umanità viene distrutta (gli ultimi superstiti si rifugiano inutilmente in un super edificio a forma di piramide) il visionario Ballard anticipò anche molte delle attuali paure ecologiste. Tutti echi che ritornano anche negli altri libri del ciclo: The Drowned World (Il mondo sommerso), The Burning World (Terra bruciata) e The Crystal World (Foresta di cristallo).
Quando poi, nel 1970, pubblica The Atrocity Exhibition (La mostra delle atrocità), considerato il suo capolavoro, Ballard lo fa incarnando tutte le ossessioni dell’epoca della Contestazione. In quindici racconti condensò: la guerra del Vietnam, la psicopatologia, la pornografia, il potere dei media, la fobia per gli incidenti stradali e le icone del sogno americano. Il risultato fu un libro crudo e discusso con all’interno un’incredibile profezia: l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca. Ai lettori e all’autore però piacque soprattutto la postmoderna curiosità macabra per gli incidenti stradali: tre anni dopo in Crash, il tema venne ripreso con successo (nel 1996, ne è stato tratto un film omonimo per la regia di David Cronenberg).
Ballard era così, raccontava quello che gli altri hanno paura di anche solo di guardare. Nel marzo del 2008 ha pubblicato anche la sua autobiografia, Miracles of Life (I miracoli della vita), nella quale ha messo nero su bianco, senza giri di parole, la malattia terminale a cui ieri si è arreso.
Da Il Giornale, 22 aprile 2009
James Ballard è morto. Aveva 78 anni e passerà alla storia come l'autore che meglio e più profondamente di ogni altro ha saputo cogliere, spesso anticipandoli, i lati oscuri della contemporaneità, di quell'epoca torva che alcuni hanno chiamato postmoderna, altri postfordista, e in cui tutti viviamo.
Inglese ma nato a Shangai nel 1930, finì con tutta la famiglia in un campo di prigionia giapponese durante la guerra. Quell'esperienza fondativa l'ha poi raccontata nell' “Impero del Sole” (1984) che Spielberg si è occupato di trasformare tre anni dopo in film. Un'autobiografia completa è uscita l'anno scorso. Si chiama “Miracle of Life” e nelle librerie italiane è appena arrivata, edita da Feltrinelli. Lo scrittore, malato di cancro al pancreas e alle ossa, cosciente di essere vicinissimo alla fine, racconta la sua vita: l'infanzia a Shangai, la prigionia, l'arrivo in un'Inghilterra molto diversa da come la aveva immaginata (“Mi resi conto che l'Inghilterra in cui ero stato indotto a credere era un prodotto della fantasia”), poi la carriera di scrittore, la traumatizzante morte della prima moglie nel'64, il conseguente e lungo idillio con l'alcol, la risalita dopo l'incontro con una nuova compagna, Claire Walsh.
Il primo romanzo, “Il vento del nulla”, è del '61. Fu considerato un libro di fantascienza, e tale lo considerava anche il suo autore, ma di un Sf molto diversa da quella allora in voga: una fantascienza che non guardava allo spazio profondo ma ai disastri ecologici, che non temeva mutanti o invasori ma un'apocalisse più autarchica, infinitamente più distruttiva, molto più inquietante perché palesemente possibile. Anzi, non una ma quattro diversi tipi di apocalisse, a ognuno dei quali dedicò un romanzo (dopo quello d'esordio, “Deserto d'acqua”, “Terra bruciata”, “Foresta di cristallo”).
A partire dal 1970, dopo la crisi seguita alla morte della moglie, Ballard cambiò bruscamente strada. Almeno in apparenza. Surreali, grotteschi, feroci i suoi libri iniziarono a descrivere il mondo contemporaneo attraverso un satirico specchio visionario, delirante, che restituiva però con lucido realismo l'impazzimento di una intera struttura sociale: i racconti di “La mostra delle atrocità”, il perverso erotismo delle lamiere contorte e dei corpi straziati di “Crash”, la metafora della guerra civile globale, permanente e insensata di “Condominio”, forse il suo vero capolavoro.
L'ultima parte della sua opera è segnata ancora da una improvvisa sterzata. A partire dagli anni '90, Ballard passa a descrivere la nuova, sterminata “middle class” del mondo costruito sulle macerie della fabbrica: sfruttatrice e sostanzialmente sfruttata, autosegregata in enclaves fortificate e militarizzate per difendersi da ogni diversità, minacciosa per definizione, costretta dal proprio intimo squilibrio a cercare sollievo abbandonandosi ad atrocità di ogni sorta. In “Cocaine Nights”, “Super-Cannes”, “Millenium People” e “Il regno a venire”, Ballard descrive le pulsioni profonde e la distruttività intrinseca del sistema sociale costruito a partire dagli anni'80 con precisione superiore e quella di quasi tutti i testi sociologici e politologici che infestano le librerie. E si adopera, coscientemente, per provocare il crollo e l'esplosione di quella sruttura. Perché James Graham Ballard è stato un grandissimo scrittore, ma è stato un ancor più grande sovversivo. Uno dei pochi rimasti sulla piazza.
Da Il Manifesto, 19 aprile 2009
J.G. Ballard didn't settle for challenging his readers. He sought to provoke them usually with success.
If J.G. Ballard -- the visionary British novelist who died Sunday of prostate cancer at age 78 -- ends up being remembered, it will likely be as a science fiction writer who aspired to use genre as a vehicle for art. That's true enough, in a certain small-bore manner, but it's ultimately reductive, a way of categorizing Ballard that his entire career stood against.
A member of the New Wave science fiction movement of the 1960s, Ballard started out writing proto-environmental thrillers that highlighted the prescience of his imagination: "The Wind From Nowhere" posits a world-wide windstorm that becomes apocalyptic, while "The Drowned World" is about a planet swamped by risen seas.
It was really in the 1970s, however, that Ballard found his voice as a writer, focusing on the dangers of mechanization and socialization, the tension between the veneer of civilization and the animal brutality it sought to conceal. Novels such as "Crash" and "High-Rise" uncovered the orgiastic possibilities of violence years before the concept became common cultural currency; "Vermilion Sands" and "Running Wild" investigated a nightmare suburbia where chaos simmered beneath the landscaped surfaces of subdivisions and lawns.
It's easy, from the perspective of the present, to minimize just how revolutionary all this was -- we now live, after all,ƒs in Ballard's world. Ballard, though, produced work that not only challenged his audiences but also actively provoked them, in some cases literally moving people to vandalism, as when he staged a 1970 exhibition of crashed cars at a London art gallery. This show, intended to illustrate the fetishization of machinery and violence, was a seminal moment for Ballard: It led to the publication of "Crash" in 1973, a novel about automobiles and violence, and the eroticism of car crashes (which was turned into a 1996 film by David Cronenberg).
"The marriage of reason and nightmare which has dominated the 20th century," the author wrote in a 1974 introduction to the French edition of the novel, "has given birth to an ever more ambiguous world. Across the communications landscape move the specters of sinister technologies and the dreams that money can buy. Thermonuclear weapons systems and soft drink commercials coexist in an overlitƒs realm ruled by advertising and pseudoevents, science and pornography. Over our lives preside the great twin leitmotifs of the 20th century -- sex and paranoia."
Ballard is best known for his autobiographical novel "Empire of the Sun," which described his boyhood experiences in a Japanese internment camp in Shanghai; it was filmed by Steven Spielberg in 1987. But for me -- as well as, I suspect, most Ballardites -- the signal text remains "The Atrocity Exhibition," a book so strange it's nearly impossible to describe. Collecting 15 "stories," all of them so compressed and fragmentary as to render traditional concepts of narrative or character moot, it provoked its own kind of violent reaction: After the book was published in 1970, notes the 1990 RE/Search Publications edition, "Nelson Doubleday saw a copy and was so horrified he ordered the entire press run shredded."
According to Ballard, the story that pushed Doubleday over the edge was a piece about Ronald Reagan, the title of which I can't reproduce here. This same story was the subject of a 1968 British obscenity trial, after the Unicorn Bookshop in Brighton published it as a pamphlet; when asked by his attorney why it was not obscene, Ballard replied "that of course it was obscene, and intended to be so." Needless to say, he did not appear as a witness in his own defense. That's a funny moment, but it's also deadly serious, suggesting the essence of Ballard's aesthetic, his point- of- view. For him, obscenity was a matter of cultural obsession; it was not his work per se, but our fixation on the figure of Reagan that made the story fit the charge.
"The Atrocity Exhibition" is full of such revelations: The final story, "The Assassination of John Fitzgerald Kennedy Considered as a Downhill Motor Race" (after Alfred Jarry's "The Crucifixion Considered as an Uphill Bicycle Race"), is as transgressive a piece of fiction as can be imagined, seven years after the death of the president.
"Oswald was the starter," Ballard begins, then takes us through a schematic of the shooting, concluding, "Without doubt Oswald badly misfired. But one question still remains unanswered: who loaded the starting gun?"
Here, we see Ballard's preoccupations come together: violence, spectacle and mass imagination, examined in a prose as flat and unaffected as an autopsy report.
"[I]n a totally sane society," he once wrote, "madness is the only freedom" -- an idea that sits at the center of "The Atrocity Exhibition," and, indeed, of his entire career.
Da Los Angeles Times, 21 aprile 2009
J. G. Ballard, a writer of dystopian, literary fiction whose novels and short stories of a contemporary society in insidious thrall to technology, the media and relentless progress both expanded and defied the genre of science fiction, died on Sunday in London. He was 78, and lived in Shepperton, west of London.
The cause was cancer, said Margaret Hanbury, his agent since 1983.
In more than 20 novels and story collections, Mr. Ballard coupled his potent descriptive powers with an imagination attracted to catastrophic events and a melancholy view of the human soul as being enervated and corrupted by the modern world.
He is best known for “Empire of the Sun,” a somewhat autobiographical novel from 1984 about an English boy growing up in Shanghai, during the Japanese occupation in World War II. The book made the short list for the Man Booker Prize, Britain’s most prestigious literary award, and Steven Spielberg turned it into a 1987 film (with a screenplay by Tom Stoppard) starring Christian Bale and John Malkovich.
Although not a characteristic work — it was neither as fantastical nor as provocative as many of his other books — “Empire” revealed Mr. Ballard’s own childhood as the source of much of his surrealistic imagination. It is full of the images — emptied swimming pools, abandoned buildings — that came to symbolize his view of the world as “a bizarre external landscape propelled by large psychic forces,” as he said in an interview with The New York Times Magazine in 1990.
Mr. Ballard’s other well-known works were on the notorious side, eliciting powerfully divided reactions. His admirers included Kingsley Amis and Graham Greene, Anthony Burgess and Susan Sontag. In 2008, The Times of London listed him 27th among the 50 greatest British writers since World War II.
But he became an inflammatory figure with a 1969 book, “The Atrocity Exhibition,” an experimental mélange of brief narratives and seeming scientific reports that drew on events like the Vietnam War, the death of Marilyn Monroe, and the deaths of James Dean and Jayne Mansfield in automobile accidents to posit a connection among the mass media, violence and sexuality.
It excited special outrage for a chapter titled “The Assassination of John Fitzgerald Kennedy Considered as a Downhill Motor Race.”
The book’s original American publisher, Doubleday, after printing a first edition, destroyed all copies of it; the book was finally published three years later by Grove Press under the title “Love & Napalm: U.S.A.” The reviews were wildly contrasting.
“Enviable, admirable Ballard!” Ms. Sontag wrote, calling the book “subtle, brutal, cerebral, intoxicating.” In The New York Times Book Review, however, Paul Theroux described it as “a stylish anatomy of outrage, and full of specious arguments, phony statistics, a disgusted fascination with movie stars and the sexual conceits of American brand names and paraphernalia.”
“Crash” (1973) continued Mr. Ballard’s fascination with what might have been called auto-eroticism; the tale of a deviant character who is obsessed with car accidents, it was later made into a 1996 film by David Cronenberg. Critics have since pointed out that its lassoing together of the public fascination with automobiles, celebrity, sex and violence prefigured the reaction to the death of Princess Diana.
But at the time it was published, some reviewers, like D. Keith Mano, found it perverse. His review in The Times Book Review began: “ ‘Crash’ is, hands down, the most repulsive book I’ve yet to come across.” He continued: “ ‘Crash’ is well-written; credit given where due. But I could not, in conscience, recommend it.”
James Graham Ballard — Jimmy to his friends — was born Nov. 15, 1930, in Shanghai, where his father had been sent by the textile firm he worked for. He grew up in affluence, but in 1943, the Japanese, who had invaded China in 1937, confined the family, along with other foreigners, in an internment camp. He would later speak about this reversal of fortune as formative, not so much cruel as surreal, a real-life encounter with the bizarre. “The techniques of science fiction allowed me to recreate this world and its transformations,” he said.
He came to England as a teenager after the Japanese surrender and studied medicine at Cambridge; he never earned a degree, though his experience dissecting cadavers would prove useful in his anatomically precise fiction. He began submitting stories to magazines, spent a year in the Royal Air Force, and in the mid-1950s turned to science fiction. His first story, “Prima Belladonna,” which involves singing orchids and a beautiful woman with insects for eyes, was published in 1956.
Mr. Ballard’s early novels, including “The Wind From Nowhere,” about a storm-flattened civilization; “The Drowned World,” in which floods leave citizens living in the top floors of buildings; and “The Drought,” with the globe threatened by combustion, were about individuals coping with apocalyptic calamity. But in his later works — like “High Rise,” in which the residents of a building stranded by a power failure regress to primitive behavior; and “Concrete Island,” in which an injured motorist finds himself abandoned on a highway median — his theme of a progress-drunk society undermining itself emerged.
His last book, an autobiography, “Miracles of Life,” was published last year. A complete collection of his short stories is due from W. W. Norton in September.
Mr. Ballard’s wife, Mary, died in 1964; their son, James, and two daughters, Fay and Beatrice, survive him, along with four grandchildren. He is also survived by his companion, Claire Walsh.
The prescience of Mr. Ballard’s work and its harsh conflation of the present and the future often resulted in comparisons to writers like Huxley and Orwell. “His fabulistic style led people to review his work as science fiction,” said Robert Weil, Mr. Ballard’s American editor at Norton. “But that’s like calling ‘Brave New World’ science fiction, or ‘1984.’ ”
Da The New York Times, 21 aprile 2009
James Graham Ballard accetta di essere intervistato da Evelyn Finger per Die Zeit. Gli viene chiesto, naturalmente, un parallelo tra le apocalissi naturali (nel caso, l'uragano Katrina) e le catastrofi che aveva raccontato nei suoi libri. A cominciare dalla primissima, quel Vento dal nulla, pubblicato nel 1961, dove il vento nasce inspiegabilmente, cresce, si alimenta in ogni parte del mondo e distrugge tutto quel che trova sul suo cammino. Ballard risponde: "Tutti i miei libri affrontano lo stesso problema: la civiltà umana è come la crosta di lava di un vulcano. Sembra solida, ma se la calpesti, trovi il fuoco".
È la definizione migliore, naturalmente, che libera l'opera di Ballard dall'annoso e noioso problema dello scaffale, che probabilmente si riproporrà con maggior forza ora, dopo la morte dello scrittore, avvenuta ieri a settantotto anni, al termine di una lunga malattia annunciata nella sua autobiografia, I miracoli della vita.
Cos'era dunque Ballard? Era, certo, l'autore di fantascienza che già nel secondo libro, Il mondo sommerso, affiancava la narrazione di una distruzione esterna (questa volta per lo scioglimento delle calotte polari) all'indagine dentro l'animo umano.
Era il 1962: l'anno in cui uscì, sulla rivista New Worlds, il suo articolo Which Way to Inner Space, che avrebbe aperto il varco al cyberpunk. Basta con lo spazio esterno, non più gloriose astronavi che sfrecciano nelle galassie, ma la discesa nella psiche degli uomini, e nel modo in cui la medesima interagisce con i mass media. Innesto che si sarebbe rivelato con forza nello straordinario La mostra delle atrocità, o in Condominio, che esplora la regressione alla barbarie nel microcosmo di un grattacielo. E poi, certo, in Crash, forse la sua opera più famosa, di sicuro quello che Ballard considerava la più importante.
Eppure, Ballard non era soltanto un autore di fantascienza. Intervistato da Valerio Evangelisti per XL, parlava di quell'esperienza al passato: "Molti anni fa scrivevo fantascienza. Ma non ho scritto fantascienza per trent'anni o forse più. Non mi vedo più come uno scrittore di fantascienza". Del resto, aggiungeva, la fantascienza non aveva più senso: "È morta il giorno in cui Armstrong ha messo piede sulla Luna, nel 1969. Penso che allora si sia messa la parola fine. Da allora molti dei sogni della fantascienza si sono avverati. I trapianti, la manipolazione genetica... Vuoi che tua figlia somigli alla Lollobrigida? Oggi è possibile".
Infatti, Ballard ha esplorato anche il proprio inner space, con romanzi autobiografici come L'impero del sole, divenuto film di Spielberg (su sceneggiatura di Tom Stoppard), dove raccontava la sua prigionia in un campo giapponese, durante la Seconda guerra mondiale. Era, anche, l'osservatore del contemporaneo, come in quello che è il suo ultimo romanzo, Regno a venire, del 2006. Era, leggendo le sue interviste, spietato e disponibile.
Di sé, raccontava di non amare la musica, di non possedere dischi, di non navigare su Internet e di scrivere a mano. A chi gli chiedeva, come Evelyn Finger, se davvero i mostri sanguinari dei suoi romanzi potessero materializzarsi, rispondeva di sì: "Situazioni come quelle prefigurate in Crash o in Condominio sono ormai quasi moneta corrente. Non tanto però nella forma di esplicite esplosioni di violenza, come nei miei romanzi, quanto piuttosto di aggressività latente. Le persone continuano a svegliarsi al mattino, a salire in macchina e ad andare in ufficio. Le uniche cose eccitanti ormai succedono solo nella testa delle persone. Luogo assai pericoloso".
Da La Repubblica, 20 aprile 2009