The Brutalist

   
   
   

Quel troppo che non giovca Valutazione 3 stelle su cinque

di Clara Stroppiana


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mercoledì 5 marzo 2025

 “The Brutalist è uno dei pochi film che parlano di architettura”. Lo ha affermato lo stesso regista, lo statunitense Brady Corbet. Nella locandina è ripreso un fotogramma in cui la Statua della Libertà è rappresentata a testa in giù  e le scritte sono disposte in diagonale. Sembra dirci che gli ideali espressi da quel monumento hanno subito uno scossone e siamo di fronte a un periodo di grandi cambiamenti. In effetti questo è un film con varie tracce, anche se si è scelto di annunciarlo come il racconto di una corrente architettonica, il Brutalismo, fatto attraverso la biografia di un suo esponente, “il brutalista” del titolo: l’architetto László Tóth interpretato da Adrien Brody (Oscar al miglior attore protagonista) un ebreo ungherese, formatosi alla Bauhaus, che aveva ottenuto notorietà e successo. La sua brillante carriera si era interrotta nel ’43 quando era stato deportato nel campo di Buchenwald. Sopravvissuto, era riuscito a raggiungere gli Stati Uniti con la speranza di una nuova vita. Meglio dire subito che László Tóth non è mai esistito. Inutile andarlo a cercare in rete dove si troverebbe solo il suo omonimo, quell’ungherese che vandalizzò La Pietà michelangiolesca a San Pietro. Il nostro e’ un personaggio immaginario uscito dalla penna dei due sceneggiatori: lo stesso Corbet e Mona Fastvold.  Eppure mentre assistiamo allo svolgersi della sua vita, dimentichiamo di essere in presenza di un “falso”, almeno fino a un certo punto. Per la costruzione del protagonista si sono avvalsi  delle biografie di alcuni architetti cronologicamente e artisticamente vicini. Questo da una parte lo ha reso verosimile, ma dall’altra ha finito per caricare sulle sue spalle troppe delle problematiche dell’epoca con un effetto “too much”.
Il film parte da un’idea interessante, prendere in prestito l’architettura per disegnare il ritratto di un Paese (di una parte di Mondo in verità) che sta costruendo il nuovo sulle macerie di un passato verso il quale ha il dovere della memoria. Nello sviluppo però si perde e non riesce a controllare la mole delle vicende che si propone di raccontare.
La Storia si affaccia attraverso gli schermi televisivi su cui passano brevi estratti dei notiziari dell’epoca ad accompagnare sia quel che accade nel privato dei personaggi, sia i conflitti che caratterizzano la società americana dell’immediato Dopoguerra e le ferite ancora sanguinanti rispetto alle quali non tutti riescono o vogliono voltare pagina. Non sempre questa scelta funziona: a volte fornisce allo spettatore informazioni  necessarie, ma altre appaiono pleonastiche, come la notizia del diffondersi dell’eroina dalla quale il protagonista ha sviluppato una dipendenza. L’impressione è che Corbet non sia riuscito a sfrondare il superfluo, che si sia fatto prendere la mano dalla preoccupazione di dover dire e spiegare tutto. Il breve riferimento alle azioni dei partigiani italiani fatto durante la visita ai marmi di Carrara non solo è inutile, ma rovina l’emozionante ripresa delle cave del britannico Lol Crawley che si è aggiudicato l’Oscar per la miglior fotografia. Lo stupro di Tóth da parte di Harrison Lee Van Buren (un ottimo Guy Pearse), un ricco industriale diventato suo mecenate, è una metafora eccessiva, non necessaria per esprimere quella violenza che di fatto esercita chi detiene il potere economico, già ben esplicitata in tutta la narrazione.
Nello svolgimento della trama, che abbraccia all’incirca gli ultimi trentacinque anni della difficile vita del protagonista, lo spettatore apprende per sommi capi i principi estetici del Brutalismo: le béton brut (cemento a vista) da cui prende nome e la semplice geometria delle forme. Principi esemplificati da un grandioso edificio che Van Buren vuole far costruire in cima a una collina e dedicare alla memoria della madre.  Dal momento della sua progettazione, alla realizzazione del plastico, ai lavori per la sua edificazione, diventa il cardine della vita di László, l’oggetto dei suoi tormenti interiori e delle lotte che deve sostenere con i cittadini, l’appaltatore, le maestranze, perfino la moglie, perché tutti, per motivi diversi, minacciano di allontanarlo dal suo progetto e di snaturarne l’essenza. Le scelte estreme a cui arriva per difenderlo non risiedono tanto, o non solo, nelle convinzioni artistiche, quanto nel legame che l’edificio ha con i campi di sterminio che hanno segnato la sua vita, quella della sua famiglia e di un intero popolo. L’opera rimanda anche visivamente al monumento alle vittime dell’olocausto di Berlino e non avrebbe affatto bisogno dello “spiegone” con cui il film si conclude nell’Epilogo.  
 

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