Film strepitoso, fantasmagorico e liberatorio, come pittura onirica e fantastica, provocatorio come certi quadri di Dalì, leggero come quelli svolazzanti di Chagal, primigenio come la musica da balletto di Stravinskij, fiabesco come quella di Prokofiev, sontuoso come le decorazioni di Klimt, floreale come la pittura di Tadema!
Che altro? Lanthimos ha avuto la sfortuna di concorrere agli Oscar con un capolavoro assoluto come “Oppenheimer”, o con uno straordinario “La zona d’interesse”, altrimenti oltre agli Oscar per la strepitosa interpretazione di Emma Stone, la migliore scenografia, i costumi, il trucco, avrebbe potuto aggiudicarsi quello per il miglior film. Ma per venire alla sostanza: quale encomiabile libertà di pensiero e di azione, quale emancipazione dalle pastoie del politicamente corretto, quale Aufklärung rispetto al monotono oscurantismo seriale holliwoodiano!
Non conosco il libro di Gray da cui il film è tratto, ma d’altra parte cerco sempre di giudicare un film per quello che è in sé, e in questo “Povere creature!” vedo soprattutto un tentativo di descrivere in forma assolutamente originale una specie di “Bildungsroman”, la cui protagonista è una donna che, come verso la fine spiega il medico-demiurgo Godwin (Willem Dafoe), è allo stesso tempo figlia e madre di se stessa: una circolarità esistenziale che fa a pugni con la concezione unidirezionale del progresso (e della vita!), così come concepita dal positivismo, filosofia propria dell’epoca vittoriana, nella quale la storia si svolge.
Certo il film allude assai al “Frankenstein” di Mary Shelley, il volto stesso del dott. Godwin pare un collage di pezzi assemblati; e naturalmente Bella, “costruita” e fatta vivere attraverso l’innesto del cervello del feto che portava in grembo: e poi tutti quegli animali che razzolano in cortile, frutti di incroci: polli con la testa di maiale, o di cane, per finire col generale Blessington, al quale viene innestato il cervello di una capra. Però, per associazione di idee, l’opera nel suo complesso più che a Frankenstein mi fa pensare ad “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Carroll, peraltro proprio di epoca vittoriana: quello di Bella, infatti, è un percorso a tappe di progressiva conoscenza di sé e delle stramberie del mondo, spesso dolorose, molto spesso incomprensibili, proprio come per Alice. La differenza sostanziale resta nel fatto che Bella, al contrario di Alice (ma forse nella realtà, Lewis Carroll l’aveva in qualche grado edotta in materia), fa esperienza del piacere sessuale, in tante sue modalità, e fa esperienza della libertà di disporre di se stessa, del suo corpo, del suo tempo e delle sue pulsioni, fino a diventare prostituta: al di sopra e al di fuori di qualsiasi connotazione e restrizione morale. Libera, padrona di sé, la vera protagonista del grido femminista “Io sono mia!”. Perciò si avvicina poi anche al socialismo: non è certo una bigotta borghese vittoriana, ipocrita e castrata. Verso la fine, la sua sempre inappagata curiosità sta per fregarla: ricade nelle mani di colui che si proclama suo marito, e che come tale, tronfio, possessivo ed estremamente pronto alla violenza, alla conquista imperialista, la vorrebbe ricondurre ad essere oggetto di proprietà. Lo ripaga alla grande, rendendolo un innocuo ruminante di cespugli.
Straordinaria la scenografia ed anche la fotografia, con l’uso continuo di un grandangolo esasperato, quasi occhio di pesce, ed i colori fantasmagorici, espressionistici, come di chi, al pari di Bella, si senta libero di esprimersi per ciò che sente. Al tutto fanno sfondo scenografie di un Liberty inventato ridondante e assai gustoso. Trovo poi azzeccatissima la colonna sonora, spesso graffiante, stridente, come un pettine che va apposta contropelo. E inutile dire che la Stone è assolutamente brava, ma bravi anche Ruffalo, Dafoe, Youssef.
Splendido!
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