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Se non è un capolavoro assoluto, ci va assai vicino, soprattutto per il nitore concettuale che lo permea, e che lo rende estremamente coerente, a cominciare dall’uso della mdp: quasi sempre in posizione fissa e diretta ortogonalmente all’oggetto che riprende; e quando la mdp è in movimento, magari per seguire un personaggio che sta camminando, scorre su binari che eliminano qualsiasi minimo scossone da handycam: e sempre, comunque, riprendono ortogonalmente il soggetto. Questo assillo dell’ottima fotografia è per me un po’ la cifra del film, e non funziona alla maniera di altri autori, come Rohmer: in questo caso, la sua fissità è la metafora della fissità esistenziale dei personaggi del film, la sua ortogonalità è metafora della ortogonale pianificazione dello sterminio: tutto dev’essere calcolato, tutto dev’essere perfetto, appunto come gli angoli a squadra, o come il giardino della villa perfettamente rettangolare, o come le pavimentazioni dei corridoi a disegni geometrici rigorosamente identici e squadrati. Anche il cromatismo adottato va nella stessa direzione: così sfumato, tenue, adatto a descrivere la vita di una comune, agiata famiglia borghese: che di questo il film tratta, della famiglia di Rudolf Höß. Ah, beh, certo, dietro il muro di cinta del giardino della villa c’è il campo di sterminio di Auschwitz, che Rudi stesso ha messo su, e del quale è direttore; se ne scorgono i tetti degli alloggi, le alte ciminiere sempre in funzione, il fumo che esce, rossastro di notte, tutte le notti, ogni tanto grida, qualche sparo: ma il campo di sterminio nella storia raccontata non entra mai direttamente, se ne sta al di là del muro e nessuno lo vede. O meglio: vederlo lo vede, ma è come se non ci fosse.
Nessuno vede l’orrore, poiché nessuno lo vuol vedere: ecco perché intendo questo film come “lo specchio nero dell’eterno presente”, e non del passato: troppo comodo. Invece il film, mostrandoci la mostruosità di quella società nazista, genocida, completamente indifferente alle atrocità immani che stava commettendo, delle quali si può dire si stesse cibando, esso ci mostra la nostra esatta indifferenza di fronte ad altri sterminii, ad altri genocidi, che accadono esattamente sotto i nostri occhi, mentre noi ci occupiamo allegramente del Festival di Sanremo o del campionato di calcio. O non è forse quello perpetrato attualmente a Gaza dai sionisti un vero e proprio efferato sterminio di massa, al quale restiamo sostanzialmente indifferenti? Il film si chiude con due scene sovrapposte: da una parte Höß che scende una scalinata interna, sotto una luce livida, finché dopo aver vomitato, scompare nell’oscurità del suo stesso inferno; dall’altra, alcune addette che, al giorno d’oggi, ci mostrano senza tanti svolazzi e senza alcuna retorica cos’è Auschwitz oggi. E quelle scarpe, quelle centinaia di migliaia di scarpe ammassate dietro i vetri e che silenziose ci raccontano il numero incommensurabile dello sterminio perpetrato nell’indifferenza, o peggio, di un’intera società.
Estremamente funzionali i titoli di testa e di coda, quel nero che è come il nero interiore che ci rende ciechi. Estremamente perturbante, ed anche molto poetico, l’uso dell’infrarosso, adatto a raccontare una storia altra, di una ragazzina che lascia segni dietro di sé, e che io interpreto come la protagonista femminile della fiaba di Hans e Gretel. Un film assolutamente da non perdere!
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