
Attraverso una complessa struttura narrativa, la serie completa la sua avventura con un vero e proprio ritratto del Messico, mostrandone l'eterogenea realtà nel passaggio dagli Anni Ottanta agli Anni Novanta. Ora su Netflix.
di Gabriele Prosperi
Il passaggio dello scettro da parte di Eric Newman nelle mani di Carlo Bernard, ora showrunner della serie, segna un passaggio di stato anche a livello narrativo, in primo luogo temporale: se le prime due stagioni di Narcos: Messico erano ambientate negli Anni Ottanta per raccontare le faide tra bande e le implicazioni governative per contrastare il cartello di Guadalajara, la terza stagione si apre con un netto salto temporale, spostandoci negli Anni Novanta, mostrando in maniera inedita l'evoluzione del narcotraffico nel contesto della globalizzazione.
In dieci episodi la stagione mette molta carne sul fuoco, dal tema della corruzione a quello della tossicodipendenza, dalla trasformazione di boss e criminali in star lodate per i loro successi alla rappresentazione della povertà, passando per le difficoltà a esprimere le proprie opinioni - in particolare con la storyline del giornale La Voz, che si prefigge di mostrare i collegamenti tra una politica corrotta, sia a livello locale che nazionale, con il narcotraffico.
Per mezzo di questa complessa struttura narrativa, che in più occasioni richiede uno sforzo costruttivo e riorganizzativo da parte dello spettatore, la serie completa la sua avventura con un vero e proprio ritratto del Messico, mostrandone l'eterogenea realtà nel passaggio dagli Anni Ottanta agli Anni Novanta.