Opera senza autore

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opera senza autore Valutazione 4 stelle su cinque

di sergio dal maso


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venerdì 8 febbraio 2019

“L'arte è la forma più alta della speranza”     Gerhard Richter
 
Dodici anni dopo l’indimenticabile Le vite degli altri, splendido esordio che impose Florian Henckel von Donnersmarck nell’olimpo dei cineasti contemporanei, il regista tedesco torna a confrontarsi con la travagliata storia del suo popolo e con i traumi collettivi rimossi senza alcuna espiazione.
Anche questa volta la grande Storia è raccontata attraverso la vita del protagonista, allora era l’agente della Stasi Gerd Wiesler, questa volta il giovane pittore Kurt Barnert. E anche in questo caso si tratta di una storia vera, seppur romanzata. Il personaggio principale è infatti ispirato alla vita di Gerhard Richter, forse il maggiore artista contemporaneo tedesco.
La storia di Kurt Barnert ha sullo sfondo le vicende cruciali del “secolo breve” europeo, quel trentennio che va dalla fine degli anni trenta alla fine dei sessanta, passando dalla Germania nazista a quella comunista post-bellica, per finire nella Repubblica Federale Tedesca negli anni della guerra fredda.
L’infanzia del piccolo Kurt è segnata dall’internamento dell’amata zia Elizabeth in un ospedale psichiatrico, trauma che lo accompagnerà per tutta la vita, come del resto il legame con il dottor Seeband, zelante esecutore delle follie eugenetiche naziste, responsabile del ricovero coatto della sorella e suo futuro suocero. 
Finita la guerra Kurt crescerà a Dresda, nel blocco filo-sovietico, studiando arte all’accademia, dove conoscerà Ellie, la ragazza che, tra molti ostacoli, diventerà sua moglie. L’impossibilità di realizzarsi come artista nella Germania comunista, che osteggiava la creatività individuale in nome del realismo dell’arte tanto quanto il nazismo, porterà il protagonista a fuggire a Dusseldorf, nella Germania Ovest, dove finalmente troverà nella creazione artistica quella verità da sempre cercata. Sfumando le immagini del suo passato potrà ritrovarne il senso autentico, riuscendo in questo modo a focalizzarle dentro di sè. 
L’epopea a tratti melodrammatica e il forte coinvolgimento emotivo che cattura lo spettatore dall’inizio alla fine possono non far cogliere la profondità e i diversi livelli narrativi di Opera senza nome, la cui apparente linearità nasconde una costruzione su più livelli, ricca di spunti.     
Sullo sfondo, si diceva, c’è la tragedia della seconda guerra mondiale, delle ferite mai rimarginate del nazismo e della guerra fredda. C’è la rimozione collettiva dell’orrore dell’olocausto, attuato non solo nei confronti degli ebrei ma anche delle minoranze etniche e delle persone ritenute “socialmente inutili”.
La rimozione delle responsabilità e delle colpe della barbarie nazista è ben simbolizzata dalla malvagità del dottor Seband, cinico e spregiudicato quanto abile nel riciclarsi, prima nel regime comunista, in seguito nella Germania occidentale. Contrapposta all’“angelo del male” c’è l’innocenza della storia d’amore tra Kurt e Ellie. Il loro sentimento, assoluto e puro, accompagnerà Kurt per tutta la vita nella tormentata ricerca di una identità artistica. L’atto di creazione delle sue opere gli consentirà di cogliere la verità nascosta nelle ferite del passato e trasformare in bellezza il dolore rimosso.
Per Florian Henckel von Donnersmarck la potenza dell’arte è proprio questa: la possibilità di trovare la  bellezza anche se nascosta e offuscata dal male subito. Perché la creatività degli artisti è inseparabile dal loro vissuto. “Il talento dei geni è la crosta sulle ferite ricevute nella loro infanzia. Ciò significa che gli esseri umani hanno una capacità quasi alchemica di trasformare un trauma in qualcosa di positivo, il mio film è il tentativo di osservare questa alchimia, attraverso il prisma dei traumi storici del mio paese.”
Nonostante la durata inconsueta il film di von Donnersmarck coinvolge ed emoziona. Le diverse epoche storiche sono amalgamate in modo armonico, senza cali di tensione. La sceneggiatura è lineare ma efficace, con i personaggi principali ben caratterizzati dal punto di vista psicologico, anche grazie alle ottime interpretazioni degli attori. Su tutti Sebastian Koch, magistralmente algido e anaffettivo, oramai l’archetipo perfetto del nazista.
Opera senza nome è un film che ti resta dentro, molte scene hanno un impatto emotivo e visivo molto forte. La storia di Kurt insegna che tutti i traumi si possono superare, l’importante, come gli diceva la zia, è “non distogliere mai lo sguardo, tutto quello che è vero, alla fine è bello.”   

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