UNA SETTIMANA E UN GIORNO (ISR, 2016)
Diretto da ASAPH POLONSKY
Con Shai Avivi, Evgenia Dodina, Tomer Kapon, Uri Gavriel, Sharon Alexander, Carmit Mesilati Kaplan
Eyal e Vicky Spivak hanno appena perso il loro unico figlio, Ronnie. Terminata la Shiva (tradizionale settimana di lutto ebraica), devono ricominciare la vita di sempre. Devastati da un dolore palpabile, ciascuno reagirà a suo modo: Vicky tenterà di reinserirsi con impegno nella vita quotidiana e nel suo mestiere di insegnante di scuola elementare, mentre Eyal, uomo irascibile e dal temperamento leggermente immaturo, si sollazzerà con Zooler, lo scapestrato figlio degli odiati vicini di casa e amico di Ronnie, tra spinelli, partite di ping-pong, musica ad alto volume e una gita al mare. Eccoci dunque ad analizzare il film di debutto di un trentenne regista nato a Washington, ma cresciuto in Israele, che parte subito con un tema abbondante: l’elaborazione del lutto a seguito della scomparsa di una persona cara. Polonsky dimostra di avere le carte in regola per aprirsi e costruirsi un futuro cinematografico di tutto rispetto con questa commedia agrodolce già molto apprezzata al suo primo apparire, tanto da essere premiata sia al Jerusalem Film Festival che alla Semaine de la Critique di Cannes. I premi sono meritati, e lo attesta il tono costante con cui la pellicola comincia e prosegue, presentando personaggi psicologicamente molto ben descritti, ognuno motivato da uno scopo che ne esplica (non giustifica) i comportamenti. Da una parte abbiamo Vicky, irrigidita dalla sofferenza ma con l’intenzione ferrea di rimanere sempre e comunque imperscrutabile, che va dall’igienista, torna a scuola con la pretesa di allontanare senza preavviso il supplente e si tiene alla larga dai dirimpettai verso cui prova un astio irrisolto. Dall’altra troviamo Eyal che si muove nella direzione opposta, solidarizzando col figlio di questi ultimi e individuando in lui un perfetto compagno d’avventure, malgrado le sostanziali differenze caratteriali o proprio grazie a loro, per merito della loro capacità di compensazione e compenetrazione. Nel rapporto di amicizia che si crea fra Eyal e Zooler, la sceneggiatura, firmata dallo stesso Polonsky, evita con grazia e accortezza il rischio della caduta nella comicità demenziale, e in effetti un uomo alla sua prima esperienza col fumo e un ragazzo che fa il pony per un take-away di sushi ne avrebbero fornito un’occasione tradente. Con una coppia così stranamente assortita, si cerca allora di guardare alla vita nel tentativo di sorriderle, come si guarda una coppia di gattini che chiedono un sorriso. Ma i sorrisi tardano a manifestarsi, a meno che non li si vada a rintracciare sul volto di una bambina speciale la cui madre è ricoverata nella stessa clinica in cui stava Ronnie fino al giorno della sua morte. Possiamo pertanto assistere ad una delle più tenere scene di mimo che il cinema odierno ci abbia mai regalato, ponendo la nostra attenzione sul fatto che, in questo oceano di flussi mediatici, un momento da prendersi per fare silenzio e riflettere è doveroso e di un’utilità enorme. Un finale che abbraccia con semplicità il profondo significato dell’intera opera, mettendone in risalto l’umorismo tagliente e mai volgare nonché l’assurdità delle situazioni che, semmai anche nella vita reale, possono crearsi quando muore un figlio ad una coppia. Ricco di pathos, autoironia, malinconia e gag azzeccate nella loro metodica tranquillità, è un piacere da gustare insieme alla famiglia.
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