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lunedì 15 maggio 2017
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un'opera prima di grande valore e creatività
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Rec. di Maria Cristina NASCOSI SANDRI -
Come accadde a Mario Martone con il suo lontano ma rimasto sempre un unicum nella storia del cinema, Morte di un matematico napoletano, forse anche per Asaph Polonsky questa opera prima, meritatamente pluripremiata, rimarrà la sua migliore.
Perché in essa è riuscito a trasfondere tutta la sua fresca e grande giovane cultura a tutto tondo, e la sua follia altrettanto giovane che gli ha fatto interpretare - anche grazie alle performances dei protagonisti, il padre, la madre ed il figlio dei vicini odiosamati - l'elaborazione di uno dei lutti, forse il peggiore che possa capitare ad essere umano, la perdita di un figlio - in un modo del tutto originale e surreale, ma quanto umano ed affettuoso, nei confronti dell'umanità intera, con un pizzico di ironia ed autoironia che sono il sale e la salvezza dell'esistenza.
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Rec. di Maria Cristina NASCOSI SANDRI -
Come accadde a Mario Martone con il suo lontano ma rimasto sempre un unicum nella storia del cinema, Morte di un matematico napoletano, forse anche per Asaph Polonsky questa opera prima, meritatamente pluripremiata, rimarrà la sua migliore.
Perché in essa è riuscito a trasfondere tutta la sua fresca e grande giovane cultura a tutto tondo, e la sua follia altrettanto giovane che gli ha fatto interpretare - anche grazie alle performances dei protagonisti, il padre, la madre ed il figlio dei vicini odiosamati - l'elaborazione di uno dei lutti, forse il peggiore che possa capitare ad essere umano, la perdita di un figlio - in un modo del tutto originale e surreale, ma quanto umano ed affettuoso, nei confronti dell'umanità intera, con un pizzico di ironia ed autoironia che sono il sale e la salvezza dell'esistenza.
Un'autentica lezione di vita, di amore, di speranza che posson provenire dalla persona che meno pare meritare la tua fiducia, solo perché, in realtà, non la conosci, è giovane, senza esperienza - è il figlio di quei vicini che facendo l'amore tutti i giorni a due passi dalla tua camera sembrano celebrare la vita, quella vita da cui tu ormai hai preso distanze e, forse, hai già dato l'addio, anzitempo.
E invece questo giovane, che fuma spinelli, che t'insegna a fumarli e s'inventa un incidente per rimanerti vicino ed alleggerire il tuo fardello di dolore infinito, è una persona forse più adulta, che pure amava l'amico morto, pur non partecipando in diretta al periodo di lutto previsto dalla religione ebraica, lo shivà, ma che, come vuole Eli - Dio, non vuole che il tuo lutto sia eterno, la vita deve andare avanti, proseguire, perché altri ci sono ad amarti, ad esserti vicino, quando meno te l'aspetti.
Nessun uomo è un'isola e ridere o, almeno, sorridere, in questo film, è un tabu' assolutamente da superare, anche in sala, specie da parte degli spettatori, disarmati ed imbarazzati a fronte di questo nuovo e così vero meaning of life - senso della vita.
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vanessa zarastro
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sabato 13 maggio 2017
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diversità nel lutto
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Dopo la settimana dello Shiv’ah (periodo di sette giorni di lutto nell’ebraismo per i parenti di primo grado) per la morte dell’unico figlio, Eyal (il celebre attore israeliano Shai Avivi) e Vicky Spvavak (un’affermata attrice teatrale e cinematografica) Evgenia Dodina) mostrano volti e modi diversi di affrontare la sofferenza della perdita.
Mentre Vicky è più rispettosa delle tradizioni e si reca al cimitero, Eyal reagisce in modo stravagante. Lei, un’insegnante di scuola, preferirebbe ricominciare a lavorare subito, immergersi nel lavoro completamente, ma un supplente la farà ritardare di qualche giorno; è alla ricerca di “normalità” e di annullamento nell’anonimato protettivo.
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Dopo la settimana dello Shiv’ah (periodo di sette giorni di lutto nell’ebraismo per i parenti di primo grado) per la morte dell’unico figlio, Eyal (il celebre attore israeliano Shai Avivi) e Vicky Spvavak (un’affermata attrice teatrale e cinematografica) Evgenia Dodina) mostrano volti e modi diversi di affrontare la sofferenza della perdita.
Mentre Vicky è più rispettosa delle tradizioni e si reca al cimitero, Eyal reagisce in modo stravagante. Lei, un’insegnante di scuola, preferirebbe ricominciare a lavorare subito, immergersi nel lavoro completamente, ma un supplente la farà ritardare di qualche giorno; è alla ricerca di “normalità” e di annullamento nell’anonimato protettivo.
Eyal torna nell’ospice dove è morto il figlio Ronnie, con il pretesto di recuperare una coperta colorata. Lì, tra gli oggetti del figlio, trova della cannabis che gli veniva data a scopo terapeutico – un bell’esempio di progresso – e se lo porta a casa. Eyal non ha mai fumato e non riesce neanche a costruirsi una canna, quindi chiede aiuto a Zooler (il simpatico Tomer Kapon), il giovane vicino un po’ strampalato, ex amico del figlio (una sorta di stoner movie). Ne nasce un bel rapporto di gioco (ludoterapia?) ostacolato dagli ingombranti vicini genitori del ragazzo, e visto in modo strano da Vicky che non riesce a inserirsi nel gioco.
Vari personaggi entrano in questo quadro – la bambina figlia della malata terminale nell’ospice che vuole esorcizzare il male, l’uomo al cimitero che ha perso la sorella e così via.
Il film così trova motivi di sorriso nel portare sullo schermo, con garbo e ironia, tematiche così dolorose. Così dice Alaph Polonsky in un’intervista: «Per dirla in parole povere, mi piace ridere e piangere e ho cercato di mettere insieme le due cose».
La città nel film, purtroppo non si vede. Potrebbe essere Tel Aviv dal mare e da una scena di traffico, ma la strada residenziale con le casette unifamiliari e il cimitero potrebbero essere ad Acri o ovunque sulla costa israeliana.
Una settimana e un giorno costituisce una buona opera prima di un regista trentenne che è nato a Washington ma che vive in Israele. È stato premiato sia al Jerusalem Film Festival sia alla Semaine de la Critique a Cannes.
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flyanto
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martedì 16 maggio 2017
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l'elaborazione del lutto di una coppia
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Ritornare alla quotidianità dopo un lutto, e tanto più se il defunto è il proprio giovane figlio, risulta sempre difficile, se non addirittura impossibile. Ed è quello che succede ai due coniugi dopo la settimana di lutto trascorsa secondo la religione ebraica. L'uomo, devastato dal dolore, reagisce in una maniera inconsueta e, cioè, avendo trovato della marijuana nella borsa del figlio defunto, sballandosi con l'amico di quest'ultimo e trascorrendovi le ore insieme, quasi a rivivere un poco il rapporto ormai impossibile. La donna, invece, reagisce all'opposto del marito e, cioè, manifestando un'asprezza eccessiva in ogni tipo di rapporto con gli altri e cercando di ritornare alla sua esistenza di sempre ed alle sue mansioni quotidiane come se nulla fosse accaduto.
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Ritornare alla quotidianità dopo un lutto, e tanto più se il defunto è il proprio giovane figlio, risulta sempre difficile, se non addirittura impossibile. Ed è quello che succede ai due coniugi dopo la settimana di lutto trascorsa secondo la religione ebraica. L'uomo, devastato dal dolore, reagisce in una maniera inconsueta e, cioè, avendo trovato della marijuana nella borsa del figlio defunto, sballandosi con l'amico di quest'ultimo e trascorrendovi le ore insieme, quasi a rivivere un poco il rapporto ormai impossibile. La donna, invece, reagisce all'opposto del marito e, cioè, manifestando un'asprezza eccessiva in ogni tipo di rapporto con gli altri e cercando di ritornare alla sua esistenza di sempre ed alle sue mansioni quotidiane come se nulla fosse accaduto. Riusciranno, a fatica, a superare o, meglio, a sopportare il profondo dolore ed a cercare di ricostruirsi insieme nuovamente una vita.
Il giovane regista israeliano Asaph Polonsky, qui al suo primo lungometraggio, riesce a consegnare al pubblico un'opera veramente toccante e delicata. Senza mai sconfinare nell'eccessiva drammaticità o nell'esagerato piagnisteo, Polonsky attraverso un'ironia sottile ed arguta, ma mai fuori posto, presenta un ritratto quanto mai reale di una certa e dolorosa situazione quale, appunto, quella della morte di un figlio per due genitori. Le reazioni che il regista descrive, soprattutto quella del padre, potrebbero sembrare in un primo momento assurde ma non sono affatto così ed, anzi, risultano quanto mai comprensibili, sebbene singolari. Il lento ritmo degli eventi o, meglio, le svariate azioni svolte dalla coppia e dai personaggi di contorno che hanno a che fare con loro, sono tempisticamente parlando perfettamente rappresentate ed equilibrate facendo sì che la pellicola risulti un vero e piccolo gioiello di cinema.
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great steven
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sabato 2 maggio 2020
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ottimo esordio per l'israeliano polonsky.
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UNA SETTIMANA E UN GIORNO (ISR, 2016)
Diretto da ASAPH POLONSKY
Con Shai Avivi, Evgenia Dodina, Tomer Kapon, Uri Gavriel, Sharon Alexander, Carmit Mesilati Kaplan
Eyal e Vicky Spivak hanno appena perso il loro unico figlio, Ronnie. Terminata la Shiva (tradizionale settimana di lutto ebraica), devono ricominciare la vita di sempre. Devastati da un dolore palpabile, ciascuno reagirà a suo modo: Vicky tenterà di reinserirsi con impegno nella vita quotidiana e nel suo mestiere di insegnante di scuola elementare, mentre Eyal, uomo irascibile e dal temperamento leggermente immaturo, si sollazzerà con Zooler, lo scapestrato figlio degli odiati vicini di casa e amico di Ronnie, tra spinelli, partite di ping-pong, musica ad alto volume e una gita al mare.
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UNA SETTIMANA E UN GIORNO (ISR, 2016)
Diretto da ASAPH POLONSKY
Con Shai Avivi, Evgenia Dodina, Tomer Kapon, Uri Gavriel, Sharon Alexander, Carmit Mesilati Kaplan
Eyal e Vicky Spivak hanno appena perso il loro unico figlio, Ronnie. Terminata la Shiva (tradizionale settimana di lutto ebraica), devono ricominciare la vita di sempre. Devastati da un dolore palpabile, ciascuno reagirà a suo modo: Vicky tenterà di reinserirsi con impegno nella vita quotidiana e nel suo mestiere di insegnante di scuola elementare, mentre Eyal, uomo irascibile e dal temperamento leggermente immaturo, si sollazzerà con Zooler, lo scapestrato figlio degli odiati vicini di casa e amico di Ronnie, tra spinelli, partite di ping-pong, musica ad alto volume e una gita al mare. Eccoci dunque ad analizzare il film di debutto di un trentenne regista nato a Washington, ma cresciuto in Israele, che parte subito con un tema abbondante: l’elaborazione del lutto a seguito della scomparsa di una persona cara. Polonsky dimostra di avere le carte in regola per aprirsi e costruirsi un futuro cinematografico di tutto rispetto con questa commedia agrodolce già molto apprezzata al suo primo apparire, tanto da essere premiata sia al Jerusalem Film Festival che alla Semaine de la Critique di Cannes. I premi sono meritati, e lo attesta il tono costante con cui la pellicola comincia e prosegue, presentando personaggi psicologicamente molto ben descritti, ognuno motivato da uno scopo che ne esplica (non giustifica) i comportamenti. Da una parte abbiamo Vicky, irrigidita dalla sofferenza ma con l’intenzione ferrea di rimanere sempre e comunque imperscrutabile, che va dall’igienista, torna a scuola con la pretesa di allontanare senza preavviso il supplente e si tiene alla larga dai dirimpettai verso cui prova un astio irrisolto. Dall’altra troviamo Eyal che si muove nella direzione opposta, solidarizzando col figlio di questi ultimi e individuando in lui un perfetto compagno d’avventure, malgrado le sostanziali differenze caratteriali o proprio grazie a loro, per merito della loro capacità di compensazione e compenetrazione. Nel rapporto di amicizia che si crea fra Eyal e Zooler, la sceneggiatura, firmata dallo stesso Polonsky, evita con grazia e accortezza il rischio della caduta nella comicità demenziale, e in effetti un uomo alla sua prima esperienza col fumo e un ragazzo che fa il pony per un take-away di sushi ne avrebbero fornito un’occasione tradente. Con una coppia così stranamente assortita, si cerca allora di guardare alla vita nel tentativo di sorriderle, come si guarda una coppia di gattini che chiedono un sorriso. Ma i sorrisi tardano a manifestarsi, a meno che non li si vada a rintracciare sul volto di una bambina speciale la cui madre è ricoverata nella stessa clinica in cui stava Ronnie fino al giorno della sua morte. Possiamo pertanto assistere ad una delle più tenere scene di mimo che il cinema odierno ci abbia mai regalato, ponendo la nostra attenzione sul fatto che, in questo oceano di flussi mediatici, un momento da prendersi per fare silenzio e riflettere è doveroso e di un’utilità enorme. Un finale che abbraccia con semplicità il profondo significato dell’intera opera, mettendone in risalto l’umorismo tagliente e mai volgare nonché l’assurdità delle situazioni che, semmai anche nella vita reale, possono crearsi quando muore un figlio ad una coppia. Ricco di pathos, autoironia, malinconia e gag azzeccate nella loro metodica tranquillità, è un piacere da gustare insieme alla famiglia.
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