guidobaldo maria riccardelli
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sabato 23 aprile 2016
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il travaglio dell'amicizia
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Pur servendosi di strumenti antipodici, Cristian Mungiu riesce ad attribuire a quest'importante opera, profondamente drammatica, un ritmo ed un livello tensivo notevole: nonostante una costruzione fatta di piani sequenza anche abbastanza dilatati, poche ambientazioni e personaggi, ed un uso parchissimo dei movimenti di macchina, il cineasta romeno sa come tenere sulle spine, complice anche la natura della vicenda, ovviamente.
Fin dalla scena iniziale, dove volutamente si suggerisce un ambiente cercerario, fatto di costrizioni e razionamenti, vi è un'immersione totalizzante in un ambiente fortemente controllato e controllabile, dove ogni azione deve farsi strada tra burocrazie macchinose, controlli e scambi, prese in ostaggio di documenti, utilizzati al pari di esseri viventi, dove gli oggetti, data la loro penuria numerica, assurgono a gradi impensabili, battezzati e non catalogati.
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Pur servendosi di strumenti antipodici, Cristian Mungiu riesce ad attribuire a quest'importante opera, profondamente drammatica, un ritmo ed un livello tensivo notevole: nonostante una costruzione fatta di piani sequenza anche abbastanza dilatati, poche ambientazioni e personaggi, ed un uso parchissimo dei movimenti di macchina, il cineasta romeno sa come tenere sulle spine, complice anche la natura della vicenda, ovviamente.
Fin dalla scena iniziale, dove volutamente si suggerisce un ambiente cercerario, fatto di costrizioni e razionamenti, vi è un'immersione totalizzante in un ambiente fortemente controllato e controllabile, dove ogni azione deve farsi strada tra burocrazie macchinose, controlli e scambi, prese in ostaggio di documenti, utilizzati al pari di esseri viventi, dove gli oggetti, data la loro penuria numerica, assurgono a gradi impensabili, battezzati e non catalogati. Ci si muove in ambienti dove le manfrine di rito non servono a mascherare il palese squallore, comunque.
In un tale scenario, contare su persone fidate risulta fondamentale, a costo di costruire rapporti pesantemente sbilanciati, nel quale una parte viene sotterrata sotto un carico umanamente intrasportabile, causa di traumi difficilmente suturabili: si tratta qui, e forse siamo giunti al tema portante della pellicola, dei sacrifici chiesti al fine di preservare un rapporto di amicizia; e lo si mette in scena, ovviamente, con lo donne a farne da interpreti, capaci di annullare se stesse per l'altro, circondate da uomini, tutti, più interessati a badare alla realtà loro propria, e non parliamo solo degli aguzzini spietati, ma anche di coloro i quali, nonostante tutto, si propongono come figure dall'animo positivo.
Il tutto raffigurato con equidistanza pregevole, dove si annulla con ottimo ingegno il controcampo, dato che l'interesse risiede in maggior misura sull'effetto delle parole, e non sulla loro mera presenza: queste vengono usate come armi accuminate, e viene mostrata la vittima di questi fendenti, inerme e preparata al peggio. Parole in gran parte vuote e di circostanza, testimoni di visioni del mondo antiquate, fatte di rango di famiglia e proibizioni di facciata, ed in questo la straziante cena di compleanno risulta paradigmatica, dove impossibile è rimanere freddi dinnanzi alle sofferenze altrui.
Certo è, come ripetiamo, che queste pene non scivolino via di buon grado: si insinuano, permangono e permarranno.
Non rievocarle è possibile sì, ma ciò non sarà risolutivo.
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stefano cozzi
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martedì 12 giugno 2007
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quattro mesi, tre settimane e due giorni
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Non mi ha convinto del tutto l'ultimo film vincitore della Palma d'Oro. Sorprendono i buoni interpreti calati in ruoli proprio non facili (parlo ovviamente delle due protagoniste) e una camera a mano che non disseziona, non sublima le passioni - e ve ne sono parecchie - ma si limita a riferire. Ed è forse qui che l'opera di Cristian Mungiu non osa ("artisticamente" parlando): non è in grado di destare nel pubblico un sentire che li avvicini ai personaggi e ai loro drammi; mancano coinvolgimento e compassione, da sempre fuochi dell'opera drammatica. Il pubblico è disorientato davanti al sarcasmo della scena finale, e forse è proprio qui che può ritrovare un messaggio che ha dell'universale: questo feto così spassionatamente ostentato, tanto che, ancora una volta, non commuove, non è che un altro "boccone amaro" da buttare giù.
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Non mi ha convinto del tutto l'ultimo film vincitore della Palma d'Oro. Sorprendono i buoni interpreti calati in ruoli proprio non facili (parlo ovviamente delle due protagoniste) e una camera a mano che non disseziona, non sublima le passioni - e ve ne sono parecchie - ma si limita a riferire. Ed è forse qui che l'opera di Cristian Mungiu non osa ("artisticamente" parlando): non è in grado di destare nel pubblico un sentire che li avvicini ai personaggi e ai loro drammi; mancano coinvolgimento e compassione, da sempre fuochi dell'opera drammatica. Il pubblico è disorientato davanti al sarcasmo della scena finale, e forse è proprio qui che può ritrovare un messaggio che ha dell'universale: questo feto così spassionatamente ostentato, tanto che, ancora una volta, non commuove, non è che un altro "boccone amaro" da buttare giù.
Forse una maggiore contestualizzazione (descrizione della Romania al tempo di Ceausescu) avrebbe permesso al pubblico di riconoscersi disorientato e disperato nella condizione delle protagoniste.
D'altra parte Mungiu indovina la scelta di non perdersi nei dialoghi che forse, viste le complicate implicazioni, obbligatorie per un film sull'aborto, non sarebbero alla sua portata; ma neanche è in grado di esprimere un giudizio che lo porterebbe al cuore del problema posto e quindi, al cuore del pubblico. Volendo consigliare un film capace di questa non facile impresa, segnalo "Rosetta" dei fratelli Dardenne(1999), non a caso un'altra Palma d'Oro.
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