Tulpan - La ragazza che non c'era

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Un film di Sergei Dvortsevoy. Con Ondas Besikbasov, Samal Yeslyamova, Askhat Kuchencherekov, Tolepbergen Baisakalov.
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Titolo originale Tulpan. Drammatico, durata 100 min. - Germania 2006. - Bim Distribuzione uscita venerdì 24 aprile 2009. MYMONETRO Tulpan - La ragazza che non c'era * * * - - valutazione media: 3,20 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Canto diurno di un pastore errante dell'Asia Valutazione 0 stelle su cinque

di francesca meneghetti


Feedback: 7166 | altri commenti e recensioni di francesca meneghetti
lunedì 4 maggio 2009

Non vada a vedere questo film chi adora il cinema, che potemmo definire “futurista”, pieno di ritmo, velocità, azione, colonne sonore rutilanti. E nemmeno chi pensa alla natura come uno scenario idilliaco e riposante. E nemmeno chi è delicato di stomaco, igienista, amante dei profumi (artificiali). Per scoraggiare ulteriormente gli spettatori incauti, è bene aggiungere che dovranno assistere a due parti veri,di pecore, e alla rianimazione degli agnellini (che naturalmente non hanno il pelo riccioluto e candido come nell’iconografia pasquale) con un bocca a bocca. Detto questo, restano gli avventurosi. Quelli che davvero possono assecondare “un certain regard”, come recita il premio che questo film ha ottenuto a Cannes. Disposti a sciogliersi per 100 minuti dagli ancoraggi spazio-temporali dell’età attuali e immergersi in un mondo primitivo, fuori della storia. Che si affaccia timidamente solo attraverso alcuni elementi di modernità: una foto, non recente, del principe di Galles, tratta da una rivista, che abbonda di grosse tette; una radio, che sembra riferirsi ad un mondo ancora sovietico (prima dell’ ’89?); il riferimento ai pannelli solari. Per il resto, il film narra uno scorcio di vita di una famiglia di pastori nomadi kazaki, la cui vita ruota, senza orologi, attorno ad una iurta, una grande tenda, che ha il suo angelo custode nella donna, forse nemmeno mai nominata, che è sorella di Asa, il protagonista, e moglie di Ondas, capo-famiglia, e che cura con allegria e dolcezza tre bambini, sperando solo di spostare la tenda in un posto migliore. Fuori, la steppa, arida, polverosa, temibile sotto il sole e sotto l’imperversare dei venti, che assumono talvolta la forma di tornado. E’ il rumore del vento, alternato al fragoroso calpestio degli zoccoli del gregge, o ai versi dei vari animali, cammelli inclusi, o al canto delle due donne, madre e bambina, ad intessere la colonna sonora del film. Unica eccezione: la canzone, allegra e chiassosa (anche se originariamente legata al tema biblico e tragico degli ebrei deportati in Babilonia) Rivers od Babylon dei Boney M, ascoltata ossessivamente dall’unico amico di Asa, quello che vorrebbe lasciare il deserto per la città. In effetti quella che si delinea è sostanzialmente la stessa contrapposizione tra l’attaccamento alle radici, e fuga alla ricerca di altro (progresso, miglioramento, civiltà: ovvero “la città”) che si ritrova in Verga, specie nella novella “Fantasticheria”, là dove ci si chiede perché delle persone decidono di stare testardamente attaccate allo scoglio dove le ha condotte il destino, quando potrebbero stare meglio. La conclusione del regista, Sergei Dvortesevoy, sembra la stessa del maggior esponente del verismo: chi si allontana è perduto. Era indubbiamente una posizione ideologicamente conservatrice nell’ ‘800. Oggi, alla luce dell’altra faccia dello sviluppo, potrebbe essere definita diversamente. Sullo sfondo, appena accennato, il tema dell'emigrazione. I grandi movimenti migratori attuali evidenziano un discrimine, non facile da comprendere, tra chi decide di partire e chi decide di restare. In conclusione: un film non bello, ma vero. Non privo di quei sentimenti fondamentali che accompagnano l’uomo in ogni tempo, in ogni luogo: la pietà e l’amore (o il desiderio struggente dell’amore). Unica vera mancanza: la visione del cielo stellato, che si aspetta chi vorrebbe ritrovare anche le atmosfere lunari di un “canto notturno di un pastore errante dell’Asia”.

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laulilla lunedì 4 maggio 2009
leopardi non ci può essere; verga forse
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Il cielo leopardiano non può esserci perché il film non esprime mai il vuoto di senso e il nulla dell'esistenza. Al contrario, anzi, si direbbe che tutto il mondo naturale in cui è immerso Asa sia pieno di senso, basta saperlo cogliere, come Asa nel momento della sua maturazione umana. Lontanissimo dalla regia qualsiasi interrogarsi sulla noia, sul dolore connaturato al vivere e sulla morte, conclusione insensata di quel viaggio insensato e faticoso che è la vita per ogni essere vivente (almeno secondo Leopardi). Forse Verga può essere un riferimento più accettabile, ma a me sembra che nel film siano presenti altre suggestioni culturali, da Rousseau a Tolstoj riconducibili a una visione positiva della vita secondo natura a cui questi scrittori consapevolmente contrappongono la vita artificiale della "civiltà" con le sue convenzioni e i suoi riti, in cui ci si perde. [+]

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