I GIORNI DELL’ABBANDONO
Si respira un’aria da fumisteria, con qualche sniffata d’esotismo e situazioni plateali tipiche delle più banali sit-com televisive in questo I giorni dell’abbandono. Il titolo del film diventa simbolo, speriamo non profetico ma solo momentaneo, del tradimento che il pubblico deve subire da parte di un regista, Roberto Faenza, che finora non aveva mai deluso, almeno non così pesantemente.
Alla prima parte della storia, in cui si delinea una trama troppo scontata, che pure ha in sé potenziali tratti drammatici, fa seguito – nel secondo tempo del film – un definitivo abbandono di ogni speranza, una delusione derivata dai paludamenti grotteschi della protagonista, che preludono ad una soluzione finale tipicamente benpensante.
Apparentemente, questo di Faenza è l’ennesimo film sulla crisi della famiglia e dei suoi valori; in effetti non si vede uno straccio di analisi e non se n’evidenziano le motivazioni.
Un uomo, Mario (Luca Zingaretti), che se ne va di casa perché ha una crisi di senso; che ogni tanto si fa vedere per fare il buon papà che gioca con i suoi figli, mentre la moglie tenta un recupero in cucina – per sua sfortuna, però, un coccio di bottiglia finisce nel cibo – oppure urla e strepita – e qui la sceneggiatura tenta di valorizzare la situazione con frasi pesanti e osé, che invece suonano solo patetiche e ridicole - …un po’ poco e detto neanche bene. Poi arriva la figura salvifica e melensa di un musicista, dall’accento dell’est, e tutti i salmi finiscono in gloria.
Vogliamo metterci dentro anche il cane che muore per aver addentato, anziché un biberon – come fa la Nana di Peter Pan - un flacone d’insetticida, ma che poi rivive, fulgidamente assunto nel regno dei cieli dal violoncellista, deus ex machina? Oppure l’accattona che staziona sotto la casa di Olga, la quale vede riflessa in lei l’immagine di una donna che ritorna in un suo sogno ricorrente e che muore annegata? Ancora, la classica madre ottusa e rompipalle che si scandalizza perché la sua bambina, che non ne può più, sbotta in un turpiloquio liberatorio? O, che so, Olga che prima fa a pugni con la crisi di senso, forse di trent' anni più giovane di lei, poi, com’è buona lei, la perdona, fa la moglie comprensiva e l’invita a casa sua con Mario per farle conoscere i suoi figli? Non scherziamo, per favore.
Dove ho sbagliato?Dove sono stata insufficiente (sic)? – si chiede la protagonista con fare da bacchettona, che, evidentemente, ha bisogno di darsi un voto: i soliti sensi di colpa di chi si ritiene inadeguato. Tutto viene fatto girare su una conflittualità interpersonale, sul paradigma di una crisi soggettiva, senza una parola sul modello sociale ed esistenziale che c’è dietro: a quel punto è quasi inevitabile, per l’abbandonata, l’arrivo del principe azzurro dell’est e ben le sta.
La Bui (ovviamente Olga, la moglie) tenta di risollevare le sorti segnate di un film irrecuperabile, ma sembra sempre più prigioniera di un clichè interpretativo che la vede un po’ Maddalena pentita, un po’ madame Bovary, un po’ espressione di un’immagine incerta di donna che non si capisce bene se rivendichi un ruolo da femminista che si oppone al maschio padrone e ingrato o, al contrario, se regredisca ad uno stadio preindustriale, aspirando al modello della famiglia patriarcale.
Falso come l’ottone anche l’uso rétro di Olga - traduttrice di romanzi inglesi - della macchina per scrivere anziché del computer: una forma di lacrimosa captatio benevolentiae per un pubblico impegnato.
Un altro finale – che pure non riusciamo ad immaginare – avrebbe forse potuto rendere meno catastrofica questa inattesa caduta: è stato l’improvviso illuminarsi della protagonista, che risolve in maniera accomodante tutto il suo logorarsi interiore, a provocare il definitivo crollo. Quando, portata a viva forza a teatro dagli amici, Olga ritrova il suo sorriso a cospetto del vicino di casa che - fin lì quasi beffeggiato e ridicolizzato - ora sale nella sua stima perché, evidentemente, non è un piccolo travet della musica, abbiamo ravvisato un’ulteriore nota moralistica e, a quel punto, tutte le parti tradizionalmente pendenti del corpo ci sono cascate a terra.
In quello sguardo sentimentalistico, rassicurante, strappasorriso, abbiamo rivisto, pari pari, quello di Maggie Smith, nella parte della madre superiora da lei recitata in Sister Act (1992, Emile Ardolino). Lì, però, l’ironia con cui il regista faceva illuminare il volto della Smith, rendeva più godibile, per contrasto, lo scoppio della sua ira all’improvviso capovolgersi della situazione, quando la soubrette Whoopi Goldberg trasforma la chiesa in una sala da ballo.
Qui ci viene offerto un finale che suona riparatore dei torti subiti dalla protagonista, pacificatore e rassicurante. Finisce, però, con l’essere una solenne bischerata, ammantato com’è di un ottimismo di maniera, con l’uso della bacchetta magica sulle note di gigante pensaci tu, oppure in una versione riveduta e corretta (male) di Cenerentola.
Enzo Vignoli
21 settembre 2005.
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