MARY
Nuovo esempio di film nel film questo Mary, ambientato da Abel Ferrara in piccola parte nei luoghi che videro il breve svolgimento della vita di Gesù Cristo e nella sua quasi totalità negli Stati Uniti d’America.
Juliette Binoche impersona Maria Maddalena all’interno di una storia sulla vita di Cristo. In effetti, però, lei è Marie, attrice di cinema che viene talmente scossa dalla figura di Maddalena da rimanerne avvinta. Maddalena parla in lei e Marie subisce una trasformazione interiore che l’allontana dal suo mondo. Ferrara potrebbe già subito alludere qui – forse con fare irridente – alla sua persona che ha preso le distanze da Hollywood e ha fatto ricorso a capitali privati italiani, francesi e americani per rientrare nel mondo del cinema, dopo il silenzio di quattro anni che aveva seguito R-Xmas (Ilnostro Natale, 2001).
Matthew Modine è Tony. Egli ha girato il film, impersonando anche la parte di Cristo, allettato dal successo economico della pellicola di Mel Gibson, The Passion of the Christ (La passione di Cristo, 2004). Ma la figura preminente dell’intera storia è quella di Ted (Forest Whitaker), conduttore di un programma televisivo che indaga sulla figura di Cristo. Egli viene naturalmente in contatto col nuovo film, presentato proprio in quei giorni negli Stati Uniti.
Tony (Abel Ferrara) avvalora alcuni dei temi che sono stati divulgati nel fortunatissimo Da Vinci code di Dan Brown, presentando la figura di Gesù così come ci viene tramandata dai vangeli apocrifi. Maddalena, poi, non è una peccatrice e una prostituta, ma addirittura discepolo prediletto del Nazareno. Il quadro che ne deriva è quello di un possibile Cristo senza Chiesa, alla cui parola ugualmente convertirsi.
Non c’è parso che l’importanza rivoluzionaria di un’impostazione di questo tipo sia stata sostenuta da un’adeguata forza narrativa o da un credibile struggimento spirituale. Non si va oltre generiche esternazioni, superficialmente suggestive. Quando, ad esempio, vediamo Marie all’interno di un gruppo religioso a Gerusalemme, mentre si sta commemorando l’ultima cena. Nel momento in cui viene spezzato il pane, un’esplosione squarcia l’edificio e nello stesso istante, in un ospedale americano, il figlio neonato di Ted, tenuto dentro un’incubatrice, sembra non farcela a sopravvivere. O la scena finale, in cui Ted si prostra davanti a Dio e alla moglie impegnandosi ad una dedizione eterna e totale, in ringraziamento per la raggiunta salvezza della donna e del figlio.
Sono echi un po’ telefonati, più collegabili ad una necessità psicologica che non rivelatori di una vera catarsi che si dispieghi inevitabile ed invincibile davanti ai nostri occhi.Non vi abbiamoritrovato l’approccio tormentato al tema del peccato e del riscatto da esso, proprio dei momenti migliori del regista americano.
La nostra impressione è stata invece che Ferrara non sia stato in grado qui di fare niente di più che scherzare provocatoriamente con il sacro: forse un ripiegamento scettico o autoironico, derivante da una impasse etica, il suo. Non vogliamo stigmatizzare con fare moralistico questa sua propensione, non sta a noi farlo. Rileviamo tuttavia che, dal punto di vista della riuscita cinematografica, Mary è ben lontano dalla pregnanza drammatica di un film quale The funeral (Fratelli, 1996) o dalle qualità visionarie di The addiction (1994) e The Bad Lieutenant (Il cattivo tenente, 1992).
Enzo Vignoli,
26 febbraio 2006.
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