federica arnolfo
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domenica 24 febbraio 2008
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un thriller dell'anima
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"Un thriller dell'anima". Così il regista Fulvio Wetzl definisce questo piccolo gioiello della cinematografia italiana che, per non si sa bene quale motivo, non riesce a trovare una distribuzione regolare. Sì, è un thriller dell'anima, ma c'è molto di più.
Attraverso le vicissitudini di un bambino in età scolare che si esprime per mezzo di un linguaggio all'apparenza incomprensibile (la prima impressione è quella che declami i versi di qualche poesia poco conosciuta) il regista ci offre infatti l'occasione per riflettere su quanto sia difficile comunicare. E di fronte a fior di studiosi e di medici che vorrebbero "rieducare" il bambino all'uso corretto (ma corretto solo perché una convenzione ci dice che lo è) della lingua italiana, una dottoressa capisce che sono loro, i "normali", a dover imparare il codice del bambino, a capire chi lo ha educato ad un linguaggio così diverso e perché.
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"Un thriller dell'anima". Così il regista Fulvio Wetzl definisce questo piccolo gioiello della cinematografia italiana che, per non si sa bene quale motivo, non riesce a trovare una distribuzione regolare. Sì, è un thriller dell'anima, ma c'è molto di più.
Attraverso le vicissitudini di un bambino in età scolare che si esprime per mezzo di un linguaggio all'apparenza incomprensibile (la prima impressione è quella che declami i versi di qualche poesia poco conosciuta) il regista ci offre infatti l'occasione per riflettere su quanto sia difficile comunicare. E di fronte a fior di studiosi e di medici che vorrebbero "rieducare" il bambino all'uso corretto (ma corretto solo perché una convenzione ci dice che lo è) della lingua italiana, una dottoressa capisce che sono loro, i "normali", a dover imparare il codice del bambino, a capire chi lo ha educato ad un linguaggio così diverso e perché.
Ma la comunicazione passa attraverso diversi codici, diversi "segni": ecco così che la dottoressa riesce a comunicare molto meglio con il bambino che con i suoi colleghi, e solo lei, grazie alla straordinaria capacità che qualsiasi studioso dovrebbe avere di rimettersi costantemente in discussione, sarà in grado di svelare il "mistero" che sta dietro al linguaggio del bambino.
Era stato il linguista svizzero Ferdinand de Saussure ad asserire che i termini assegnati dall'uomo per "significare" ciò che lo circonda sono del tutto arbitrari e frutto di convenzione. Sembra tanto ovvio da risultare quasi banale. Ma lo è veramente? Sono davvero le parole ad essere importanti, come urlava Nanni Moretti qualche anno fa?
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albenedetti
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mercoledì 1 agosto 2012
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bisogna solo imparare ad ascoltarlo
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"Prima la musica poi le parole" ci cattura in un vortice di emozioni in cui è facile riconoscersi quando si soffre il peso dell'incomprensione: non solo quella che si subisce quando non si è capiti ma anche quella che si fa patire all'altro quando non si riesce a capirlo o non si vuole capirlo, perché magari ci costa sacrificio. Basti pensare all'esperienza del significato e del significante della parola "relazione": ci si può sforzare di individuare una convenzione per attribuire un'immagine e una spiegazione alla parola, ma questa viene svilita se il valore che le diamo non combacia con quello dato dalla persona a cui ci relazioniamo.
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"Prima la musica poi le parole" ci cattura in un vortice di emozioni in cui è facile riconoscersi quando si soffre il peso dell'incomprensione: non solo quella che si subisce quando non si è capiti ma anche quella che si fa patire all'altro quando non si riesce a capirlo o non si vuole capirlo, perché magari ci costa sacrificio. Basti pensare all'esperienza del significato e del significante della parola "relazione": ci si può sforzare di individuare una convenzione per attribuire un'immagine e una spiegazione alla parola, ma questa viene svilita se il valore che le diamo non combacia con quello dato dalla persona a cui ci relazioniamo. È forse un gioco di prospettive o c'è di più? Giovanni non parla una lingua incomprensibile, bisogna solo imparare ad ascoltarlo. E per fare questo bisogna iniziare dalla musica, l'arte che meglio di altre riesce a decodificare il linguaggio delle emozioni nonchè il modo più evidente in cui Giovanni riesce ad esprimersi, capovolgendo la briosità delle note di Bach, in una melodia enigmatica che non a caso sintetizza la sua angoscia per non essere compreso. Come il linguaggio è importante perchè è un tramite che permette di relazionarsi agli altri, così la sofferenza per l'impossibilità di comunicare ha qualcosa di sacro: Marina ed Elena lo percepiscono quando Giovanni resta in silenzio davanti al dipinto della deposizione del Cristo. Addirittura il bambino si toglie il berretto, in segno di rispetto del Dolore che la tela emana (bravissimo Andrej Chalimon). Ecco allora che questo affascinante puzzle di costruzione e decostruzione dei codici rivela il suo messaggio più profondo se e solo se riusciamo ad annientare le geometrie dettate dalla nostra razionalità per far posto al linguaggio delle emozioni, che poi è il linguaggio dell'anima: un invito universale alla comprensione dell'altro e della sua sofferenza per non essere compreso, a prescindere da ogni pregiudizio, linguistico e non. Perchè prima esistiamo come individui, poi come parte del mondo. Perchè prima ci presentiamo a noi stessi e al mondo attraverso il nostro corpo e i nostri occhi, che sono lo specchio dell'anima con cui guardiamo il mondo, poi sorge l'esigenza di fissare delle convenzioni che permettano di farci capire dagli altri ma anche di capire gli altri. Perché prima viene la musica, poi vengono le parole.
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dario d'amato
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sabato 23 febbraio 2008
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un bambino. solo, diverso dagli altri
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UN BAMBINO. SOLO, DIVERSO DAGLI ALTRI, con le immagini delicate che tendono a isolarlo ancora di più, se possibile, il paesaggio, nella prima parte del film suo unico compagno.
Il piccolo vaga, disperato, abbandonato, nella campagna toscana, finché qualcuno lo ritrova, ma in realtà non sa bene come comportarsi con lui. Perché Giovanni, pur essendo carino e intelligente, come la maggior parte dei suoi coetanei, è diverso da loro, perché parla, però usa un linguaggio del tutto personale. Sicuramente non è italiano, sicuramente non assomiglia a nessun idioma straniero...è "soltanto" la sua voce interiore a parlare per lui.
Ma non è facile comunicare con questa creatura fatta di emozioni, e allora "gli adulti" pensano bene di aiutarlo, nella conquista della sua normalità.
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UN BAMBINO. SOLO, DIVERSO DAGLI ALTRI, con le immagini delicate che tendono a isolarlo ancora di più, se possibile, il paesaggio, nella prima parte del film suo unico compagno.
Il piccolo vaga, disperato, abbandonato, nella campagna toscana, finché qualcuno lo ritrova, ma in realtà non sa bene come comportarsi con lui. Perché Giovanni, pur essendo carino e intelligente, come la maggior parte dei suoi coetanei, è diverso da loro, perché parla, però usa un linguaggio del tutto personale. Sicuramente non è italiano, sicuramente non assomiglia a nessun idioma straniero...è "soltanto" la sua voce interiore a parlare per lui.
Ma non è facile comunicare con questa creatura fatta di emozioni, e allora "gli adulti" pensano bene di aiutarlo, nella conquista della sua normalità. I medici, gli psicologi, si sforzano di capire, e teorizzano che il motivo principale perché Giovanni parla così, è dovuto ad un trauma subito quando era molto piccolo; così decidono di rieducarlo, convincendosi in maniera abbastanza goffa delle proprie convinzioni di studiosi.
Giovanni però non è un caso clinico, non lo vuole essere, e solo Marina (Anna Bonaiuto, qui in un'altra splendida interpretazione) sembra voler "parlare" con la musica del bambino. Comincia ad usare con lui, diversi modi di comunicare, espressamente non verbali, densi di significato, di cura, di attenzione, di tenerezza, soprattutto di rispetto per la sua diversità.
Anche lei, improvvisamente diventa speciale agli occhi del bambino e "strana" agli occhi degli altri, degli adulti, che vorrebbero semplicemente trovare una risposta scientifica al problema. Marina ha la capacità nascosta di parlare con Giovanni, di scoprire con lui, la musica, un lessico quasi materno, sicuramente poetico. Il film stenta un po' sulla sceneggiatura, certi personaggi non convincono, ma la fotografia e la musica, sono veramente due elementi ben delineati.
Dario D'Amato
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filmup
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sabato 23 febbraio 2008
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strano bambino
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Giovanni (Andrej Chalimon, "Kolia") è un bambino di sei o sette anni che vaga nella campagna toscana e parla uno strano linguaggio che nessuno riesce a decifrare. I medici pensano che il suo modo di esprimersi sia dovuto a qualche trauma e cercano di rieducarlo, ma le uniche che provano a capire Giovanni e il suo linguaggio sono Marina (Anna Bonaiuto, "Appassionate", "Il Postino") una psicologa e Elena (Barbara Enrichi, "Il Cielo Cade", "Il ciclone", "Fuochi d'Artificio") un'infermiera. La prima con la cultura, la seconda con l'istinto provano ad aiutare il bambino. Però i loro sforzi non vengono apprezzati all'interno dell'ospedale e le donne sono costrette a rapire il bambino per portarlo a Volterra dove Marina ha una casa.
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Giovanni (Andrej Chalimon, "Kolia") è un bambino di sei o sette anni che vaga nella campagna toscana e parla uno strano linguaggio che nessuno riesce a decifrare. I medici pensano che il suo modo di esprimersi sia dovuto a qualche trauma e cercano di rieducarlo, ma le uniche che provano a capire Giovanni e il suo linguaggio sono Marina (Anna Bonaiuto, "Appassionate", "Il Postino") una psicologa e Elena (Barbara Enrichi, "Il Cielo Cade", "Il ciclone", "Fuochi d'Artificio") un'infermiera. La prima con la cultura, la seconda con l'istinto provano ad aiutare il bambino. Però i loro sforzi non vengono apprezzati all'interno dell'ospedale e le donne sono costrette a rapire il bambino per portarlo a Volterra dove Marina ha una casa. Sotto i loro sguardi attenti, il bambino comincia a seguire le sue inclinazioni: la passione per il colore, la gestualità e il contatto fisico. Con l'aiuto di Roberto (Gigio Alberti, "Tutti gli Uomini del Deficiente", "E Allora Mambo") il suo fidanzato violoncellista, Marina riesce a risolvere l'enigma (che sta proprio nelle musica) e a decifrare il linguaggio di Giovanni. Braccata dalla polizia in una corsa contro il tempo, la psicologa riuscirà a ricostruire la vita drammatica del bambino, a incontrarne la madre Clara (Amanda Sandrelli, "Nirvana") a tornare nella villa da dove il piccolo è fuggito. Diretto da Fulvio Wetzl (giunto al suo terzo lungometraggio) e girato in Toscana, il film concentra le sue attenzioni sul bambino e il suo strano comportamento, ma non manca la cura dei rapporti d'amicizia come quello che si consolida tra la psicologa e l'infermiera e la solidarietà che le accomuna o il senso di fragilità e irresponsabilità che manifesta invece la madre di Giovanni, totalmente inerme di fronte al problema del figlio, o ancora l'incapacità di certi medici di vedere oltre quello che si manifesta davanti a loro senza preoccuparsi di analizzare profondamente l'animo del bambino.
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ezioleoni
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sabato 23 febbraio 2008
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prima le idee, poi le immagini
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Una storia originale, un'attrice sempre verace (Anna Bonaiuto), una regia efficace. La riuscita di un "piccolo" film come Prima la musica, poi le parole del padovano Fulvio Wetzl parte da questi ingredienti essenziali. Si inizia con un antefatto un po' ermetico (e cinematograficamente poco scorrevole): Lanfranco (Jacques Perrin) è un marito autoritario e intellettuale, sua moglie (Amanda Sandrelli) ne subisce il sarcasmo e l'insensibilità (chiama "protuberanza" il suo pancione di mamma in attesa), la villa sulle colline toscane che li ospita fa da cornice solare ed estraniante ad una vicenda che, con un brusco salto temporale, ci porta a otto anni più tardi. Lanfranco, solo col figlio Giovanni, parla con lui un astruso linguaggio.
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Una storia originale, un'attrice sempre verace (Anna Bonaiuto), una regia efficace. La riuscita di un "piccolo" film come Prima la musica, poi le parole del padovano Fulvio Wetzl parte da questi ingredienti essenziali. Si inizia con un antefatto un po' ermetico (e cinematograficamente poco scorrevole): Lanfranco (Jacques Perrin) è un marito autoritario e intellettuale, sua moglie (Amanda Sandrelli) ne subisce il sarcasmo e l'insensibilità (chiama "protuberanza" il suo pancione di mamma in attesa), la villa sulle colline toscane che li ospita fa da cornice solare ed estraniante ad una vicenda che, con un brusco salto temporale, ci porta a otto anni più tardi. Lanfranco, solo col figlio Giovanni, parla con lui un astruso linguaggio. All'improvviso è colpito da un infarto e le sue invocazioni d'aiuto sembrano lasciare indifferente il ragazzino. Mentre il padre si accascia davanti al computer, Giovanni esce di casa e si avventura nel mondo.
Così Prima la musica, poi le parole entra nel vivo di in racconto che si tinge di giallo, ma che non perde mai le coordinate di un accorato dramma infantile in cui l'incomunicabilità è in bilico tra il trauma psicologico e (si capirà alla fine) una indecifrabile perversione linguistica. Giovanni si ostina nei suoi "accarezzo ruzzolare" e "sabbia canta" e, mentre dottori ed esperti tendono a consideralo un caso clinico insanabile, solo Marina (la Bonaiuto) osa mettere in discussione le proprie sicurezze mediche, instaurando con Giovanni e il suo strano parlare un contatto fatto di affetto e disponibilità. Sarà uno spartito musicale a darle la chiave di lettura per dipanare il bandolo di una matassa narrativa e psicanalitica davvero intrigante e finemente costruita (Wetzl ha in mente Saussure e Chomski, ma anche Hitchcock...)
Pur con qualche ingenuità e qualche ridondanza retorica, Prima la musica, poi le parole cresce via via in intensità nel rapporto emotivo col pubblico e l'illusione di realtà che lo accompagna diventa alla fine segnale di una pregnanza filmica fuori del comune (il fatto è del tutto inventato, ma taglio stilistico e sincerità narrativa lasciano tutt'altra impressione). Merito, come si diceva, di un'Anna Bonaiuto sempre professionalmente impeccabile e della intensa, spaesata presenza del piccolo Andrej Chalimon (ricordate Kolja?), ma soprattutto di una ammirevole progettualità autoriale che, al limite della pretenziosità, riesce invece coerentemente a coniugare sullo schermo un racconto personale e toccante. Prima le idee, poi le immagini.
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martina meucci
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lunedì 22 dicembre 2008
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un film sull'importanza della comunicazione
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Nel film «Prima la musica, poi le parole», di Fulvio Wetzl, emerge in modo esemplare il problema del linguaggio. Infatti il bambino protagonista della vicenda si esprime con un linguaggio inventato dal padre. Quando il genitore muore, improvvisamente, Giovanni si trova isolato e non riesce più a comunicare con il mondo esterno. Per il bambino comincia un'odissea fatta di incomprensione e solitudine, anche da parte di chi dovrebbe aiutarlo. Infatti il piccolo viene ricoverato in ospedale e i medici non riescono a capire il suo problema. Solo la dottoressa Marina riesce ad entrare nel suo mondo, ma per poterlo aiutare è costretta a fuggire con lui dall'ospedale e a nascondersi in casa di un'amica.
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Nel film «Prima la musica, poi le parole», di Fulvio Wetzl, emerge in modo esemplare il problema del linguaggio. Infatti il bambino protagonista della vicenda si esprime con un linguaggio inventato dal padre. Quando il genitore muore, improvvisamente, Giovanni si trova isolato e non riesce più a comunicare con il mondo esterno. Per il bambino comincia un'odissea fatta di incomprensione e solitudine, anche da parte di chi dovrebbe aiutarlo. Infatti il piccolo viene ricoverato in ospedale e i medici non riescono a capire il suo problema. Solo la dottoressa Marina riesce ad entrare nel suo mondo, ma per poterlo aiutare è costretta a fuggire con lui dall'ospedale e a nascondersi in casa di un'amica. Questa è indubbiamente la parte più interessante del film, perché è una sorta di denuncia di quelle istituzioni che invece dovrebbero aiutare proprio chi ha dei problemi. Al di là della storia di Wetzl capita spesso nella società di vedere persone handicappate lasciate sole e senza comprensione, tanto che per loro diventa impossibile riuscire ad avere una vita normale. Quando invece basta poco per aiutarli: pensiamo alle persone disabili e alle difficoltà che incontrano solo a camminare per strada. Bisognerebbe fare come la dottoressa del film che aiuta il bambino riuscendo a capire le chiavi di accesso al suo codice linguistico. Marina si mette in una situazione di ascolto nei confronti di Giovanni e da lì a poco scaturisce progressivamente la comprensione. Infatti molto spesso le persone con un handicap cercano comprensione negli altri oppure vogliono comunicare i loro problemi. Sta a noi cercare di capirli, entrare nel loro «codice» espressivo e riuscire ad aiutarli. Tornando al film, va ricordato che il piccolo Giovanni vive in un isolamento comunicativo pur avendo la volontà di comunicare agli altri le sue paure, le sue angosce e la sua voglia di vivere, e per lungo tempo non ci riesce. Per i disabili è fondamentale trovare comunque un modo di comunicare con gli altri, anche perché questo è essenziale nella vita di relazione di ognuno di noi. La comunicazione si avvale di diversi linguaggi come quelli corporei, musicali, gestuali, anche se quello più utilizzato è quello verbale. Alla ricerca di linguaggi espressivi e comunicativi sta dando un notevole contributo la scuola: in molti istituti scolatici sono in corso progetti per favorire l'integrazione dell'handicap come avviene anche nello spazio-laboratorio del progetto «Comunicazione e Linguaggi» della nostra scuola. Martina Meucci, corso dirigente di comunità 4a B, Istituto Gambacorti
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albertofar
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domenica 1 marzo 2009
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la logica nascosta dietro le strambe frasi
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A me e' piaciuto parecchio. Un po' freddo, d'accordo: ma il bello
per me stava nel gioco enigmistico, e nello scoprire solo a poco a
poco quale sia la logica nascosta dietro alle strambe frasi del
bambino. L'ho visto, insomma, come un giallo... col gusto di capire che diavolo succedeva, piu' che di affezionarmi ai personaggi. L'idea di fondo mi sembra talmente ricca di implicazioni da far dimenticare qualche difettuccio (per lo piu' nella descrizione all'inizio del rapporto fra Perrin e la Sandrellina). E il film -salvo qualche compiacimento di regia di troppo verso la meta'- e' girato bene... in senso piu'intellettualistico che viscerale, certo, ma che mi pare meriti ammirazione.
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federica
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domenica 1 marzo 2009
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una storia originale e bella
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Un gran bel film, pieno di spunti di discussione, una storia originale e
bella, ed una strepitosa Bonaiuto.
Devo dire che poi i primi 20 min del film sono bellissimi proprio
perche' non spiegano nulla, e ti lasciano in questo clima di attesa, di
colui che non capisce, ed appena inizi a sentir parlare il bambino pensi
quasi sia normale (con due genitori cosi' strani): io mi ero messa in
testa che stesse declamando dei versi.
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federica
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domenica 1 marzo 2009
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entusiasmo di dire dire e ancora dire
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> Il film invita a riflettere sulla comunicazione, sul linguaggio,
sulla convenzionalita' e l'artificiosita' delle lingue umane, su quali
devono essere i veri scopi di uno psicologo (capire lui il paziente o
costringere il paziente a seguire una strada diversa dalla propria),
sulla maternita' etc etc. Il film ha forse il difetto che mette troppa carne al fuoco. Ma mi e' molto piaciuto questo entusiasmo
di dire dire e ancora dire, in un cinema come quello italiano dove si
ricerca troppo spesso il modo piu' lezioso per dire qualcosa senza
troppa attenzione a quello che si dice.
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fabriziocolamartino
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lunedì 6 gennaio 2014
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l’affetto : musica = le parole : crescita
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Fin dal titolo, Prima la musica, poi le parole, il film di Wetzl rimanda a un modo totalmente diverso di concepire l’ordine delle cose: quello di Giovanni, il piccolo protagonista, il cui linguaggio è incomprensibile agli altri poiché strutturato su schemi logici differenti da quelli convenzionali, ma anche quello proprio di chi compone canzoni, la cui regola principale è di creare prima la melodia per poi cercare le parole giuste da accompagnarvi. Al di là dell’illustrazione di un caso del tutto particolare e paradossale come quello del piccolo Giovanni, ciò cui allude il titolo è la necessità, reale e vitale per ogni individuo, di costruire le strutture logiche del proprio pensiero (e quelle del linguaggio anzitutto) a partire da un substrato affettivo forte che può essere dato soltanto in presenza di un nucleo familiare al cui interno le varie componenti coesistano in un rapporto di reciproco equilibrio.
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Fin dal titolo, Prima la musica, poi le parole, il film di Wetzl rimanda a un modo totalmente diverso di concepire l’ordine delle cose: quello di Giovanni, il piccolo protagonista, il cui linguaggio è incomprensibile agli altri poiché strutturato su schemi logici differenti da quelli convenzionali, ma anche quello proprio di chi compone canzoni, la cui regola principale è di creare prima la melodia per poi cercare le parole giuste da accompagnarvi. Al di là dell’illustrazione di un caso del tutto particolare e paradossale come quello del piccolo Giovanni, ciò cui allude il titolo è la necessità, reale e vitale per ogni individuo, di costruire le strutture logiche del proprio pensiero (e quelle del linguaggio anzitutto) a partire da un substrato affettivo forte che può essere dato soltanto in presenza di un nucleo familiare al cui interno le varie componenti coesistano in un rapporto di reciproco equilibrio. Solo sulla “musica” prodotta dall’affetto e dai sentimenti è possibile intonare le parole giuste, quelle che permetteranno al bambino di relazionarsi correttamente e razionalmente con il mondo che lo circonda. Così non è per Giovanni, educato da suo padre a utilizzare un linguaggio speculare rispetto all’italiano, ma soprattutto privato del sostegno affettivo della madre, fuggita poco tempo dopo averlo dato alla luce. Con la morte del padre, paradossalmente vittima di se stesso e della propria presunzione (le sue ultime parole. “Giovanni, và a chiamare qualcuno”, non vengono ovviamente comprese dal bambino, abituato al linguaggio speculare che proprio Lanfranco gli ha insegnato), Giovanni esce nel mondo, è costretto a confrontarsi con gli altri e a prendere atto della propria diversità. Come spesso accade, tuttavia, la risposta della società a chi è ritenuto diverso è la reclusione in un luogo di cura, l’ospedalizzazione tendente a isolare il soggetto per studiarne il comportamento al riparo da influenze esterne e a proteggerlo dai traumi che il contatto con gli altri potrebbe provocare. I colleghi di Marina ripetono involontariamente ciò che Lanfranco aveva fatto deliberatamente: isolano Giovanni come fosse un animale da laboratorio nel vano tentativo di trovare una causa organica al problema e, soprattutto, tentano di imporre al bambino un linguaggio per vie del tutto astratte, impedendone il naturale reinserimento nella comunità e soprattutto quel rapporto “affettivo” ed empirico con la realtà che possa scardinarne le vecchie abitudini. In fondo, l’assurdo comportamento di Lanfranco rispecchia il desiderio più o meno inconscio di ogni genitore di plasmare il proprio figlio senza che altri possano influire sulla sua educazione: quale sistema migliore di un totale isolamento del bambino all’interno di un universo linguistico al quale nessun altro può accedere? Il merito principale di Marina, dunque, sta non solo nel riuscire a comprendere il linguaggio misterioso di Giovanni e di averlo strappato a quella condizione di malato che ne avrebbe bloccato per sempre lo sviluppo ma, soprattutto, di aver creato una condizione all’interno della quale fosse possibile sviluppare quella componente “affettiva” del linguaggio grazie alla quale alla musica dei significanti della lingua (i suoni delle parole) corrispondano dei significati (e soprattutto dei referenti) con i quali il bambino possa avere un contatto diretto, reale e non solo astratto e riflesso così com’era nelle intenzioni del padre.
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