Matinée

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Irene Bignardi

La Repubblica

Se ai tempi di Mary Shelley la paura dell’incontrollato progresso scientifico prendeva la forma di Frankenstein e all’epoca di Stevenson il doppio volto di Jeckyll e Hyde, la paura dell’olocausto atomico e del pericolo rosso innescata dalla guerra fredda ha prodotto gli horror degli anni cinquanta e sessanta. La tesi (si veda per esempio I figli del dottor Caligari di Siegbert Praver) non è solo di Joe Dante, che attorno all’idea ha costruito con Matinée un singolare horror senza orrore, con qualche paura e molto divertimento.
Matinée, è in realtà ben lontano dall’essere un horror, anche se dalla cultura degli horror prende io spunto. È un omaggio agli occhi innocenti con cui solo trent’anni fa si guardava il cinema, quando il cinema produceva paure ed emozioni autentiche. Eravamo più giovani e innocenti noi o lo schermo?
Matinée è ambientato nel 1962 a Key West, in Florida, nei pieno della crisi cubana che Kennedy proclama dai teleschermo, dell’apocalisse atomica annunciata, della grande paura esorcizzata con assurdi rituali (buttarsi a terra con le braccia incrociate sulla nuca non sembra granché come protezione contro eventuali raggi, per non dire contro la deflagrazione, ma se protesti puoi passare per un “rosso”). Ed ecco che viene annunciato l’arrivo in città di Lawrence Woolsey (John Goodman), il re del cinema horror di serie C, che porterà con sé il suo nuovo film, Mart, la storia di un uomo che si trasforma per la radioattività in una formica gigante - e porterà anche alcuni trucchetti (come fumi artificiali e macchinette per dare la scossa ai sedili) per rendere più eccitante l’attesa proiezione.
È la grande occasione per Gene (Simon Fenton), un ragazzino appena arrivato in città, figlio di un ufficiale di marina di cui, per via del blocco a Cuba, non si hanno notizie: maniaco dei cinema horror, si appiccica al genio del trash e finisce per vivere una vera terrificante avventura.
Joe Dante e lo sceneggiatore Charhie Haas riescono con grande naturalezza a intrecciare il livello personale, quello della grande festa del cinema che rischia di finire in tragedia (a proposito, la figura di Woolsey è ispirata al regista e produttore William Castle), e quello politico: le paure artificiali e terapeutiche del cinema contro le tanto più pericolose e inesprimibili fobie degli adulti (che si materializzano nel rifugio antiatomico destinato a trasformarsi in una trappola e in un nido d’amore). Matinée è un piccolo canto d’amore per il cinema dell’orrore costruito con grande, forse troppo, garbo. E Joe Dante si riconferma il più gentile degli allievi della scuola del maestro Roger Corman, di cui utilizza il verbo per una sua poetica fantastica e politica insieme.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996



di Irene Bignardi, 1996

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