Nel 1940, come è noto, Chaplin diede al mondo una lezione di cinema-commedia a sfondo politico-ideologico in cui, usando l’arma della satira, sbeffeggiò Hitler ed il suo regime, reinventando ed adeguando Charlot ma dotandolo della parola. L’eco e l’efficacia di questo film soave ma intriso di fervore libertario –l’iniziativa bellica nazista era agli inizi- furono enormi, e rimasero a lungo intatte anche dopo, quando il cinema diede la stura alla lunga serie di film sulla II guerra mondiale in chiave antinazista, per lo più cupi, tragici, talvolta epici.
Due anni dopo toccò al tedesco Ernst Lubitsch - che si era trasferito negli USA molto prima della fuga di tanti cineasti dalla dilagante egemonia hitleriana- affrontare il tema dell’(anti)nazismo con una commedia da par suo, campo in cui si era andato specializzando nel periodo americano e nel quale era diventato famoso per il suo tocco morbido ma sferzante, divertente ma irridente, appunto il “tocco Lubitsch”. Il titolo To be or not to be (dimentichiamo la traduzione italiana, stupida ed insignificante) fa riferimento al team di protagonisti, una compagnia teatrale che, nel mezzo dell’occupazione della Polonia da parte tedesca, si trova invischiata in una intricata storia di spie, di resistenza antinazista, di deprecabili personaggi del regime occupante, di marionette con l’elmetto, ma anche di spasimanti piloti che escono ed entrano dal teatro durante il monologo di Amleto e di rapporti privati difficili tra i due attori di punta della compagnia. Gli attori sono attori ma sempre cittadini, ed in una situazione critica ai massimi livelli decidono di sfruttare a servizio della causa della liberazione la propria capacità di essere (recitanti) e non essere (insensibili alla sorti della Polonia), risolvendo al meglio un vortice di complesse situazioni inanellate a catena e svolgendo così una missione salvifica ed eroica.
Il film, come è stato detto, è perfetto sotto ogni aspetto: il plot scorre magnificamente, i dialoghi sempre arguti ed intelligenti e soprattutto esilaranti; i monologhi connessi ai “movimenti” in platea sono da manuale ed hanno una vis comica irresistibile; la recitazione splendida,a cominciare da Carole Lombard (tragicamente scomparsa prima della fine delle riprese); la regia che, priva di qualsiasi effetto speciale, accompagna attentamente ogni movimento, massimizzandone gli effetti sia comici sia drammatici, in un misto armonico che non è mai ossimoro ma abile pluritonalità funzionale all’obiettivo di demolire il nemico attraverso la sua ridicolizzazione, senza far venir meno il pathos di una tragedia costantemente presente. L’arte è vita, è nella vita, serve alla vita; per vivere al meglio e migliorare la propria vita quanto quella degli altri occorre essere grandi artisti, ed in particolare grandi attori, perché la finzione e la realtà sono due aspetti dell’uomo sapiens che hanno bisogno l’una dell’altra. Questo sembra dirci Lubitsch, che, maestro della commedia, non esita a sfoderare ed affondare gli artigli della satira come e più di Chaplin, debordando volutamente dai toni contenuti anche se taglienti del Grande Dittatore nel grottesco, nel macchiettismo pur di togliere al nazismo ogni sia pur minimo accenno di credibilità o di umanità. E questo con l’uso sapiente delle sole armi di un umorismo acuminato che genera risate e insieme esecrazione e della poesia, qui fortemente evocata dai ripetuti monologhi, sul palcoscenico e fuori scena, tanto del protagonista quanto della comparsa che si farà comprimaria.
Il film, restaurato in epoca recente come lo stesso Grande Dittatore, è in lingua originale con sottotitoli, e sarebbe impensabile che non lo fosse; anche il miglior doppiaggio toglierebbe autenticità e sfumature fondamentali per una ottimale fruizione. Grandioso.
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