
Esce in sei copie la docu-fiction sull'Africa tratta dal libro di Walter Veltroni.
di Pierpaolo Simone
A sud dell'Occidente
Le vicissitudini politiche aiutano gli audaci mentre, a volte, li sfavoriscono. È il caso della pellicola di Franco Brogi Taviani, nome illustre, che con l'Istituto Luce porta nei cinema Forse Dio è malato, liberamente ispirato all'omonimo libro di Walter Veltroni sulla sua esperienza in Africa.
Ed è proprio il leader del partito democratico, allora politicamente meno esposto, a creare un po' di involontaria maretta sulla distribuzione (sei copie) e sulla visibilità di questo docu-fiction d'autore, come viene più volte definito in conferenza stampa. "Questo film è nel listino dell'Istituto Luce da diverso tempo, mentre il governo è caduto solo pochi giorni fa", commenta così Grazia Volpi – una delle produttrici del film – il probabile "oscuramento" della pellicola da parte delle reti televisive private, una sentenza che non permette appello a causa della par condicio, vista la "partecipazione" come autore dell'ex sindaco di Roma. "Non abbiamo ricevuto dei veri e propri rifiuti", replica il regista "ma sappiamo che in campagna elettorale la visibilità televisiva sarà inevitabilmente limitata. Ma, credendo fortemente nel progetto, speriamo che si faccia strada da solo, nei cinema e nei dibattiti che seguiremo nelle città che ne ospiteranno la programmazione".
Un'opera dai buoni propositi
Tanti buoni propositi – dalla lotta al virus dell'Hiv fino alla povertà cui sono sottoposti milioni di persone del sud del mondo – per una pellicola costata più di seicentomila euro: "Non possiamo quantificare in maniera precisa il costo dell'operazione", sottolinea la produttrice. "Ognuno di noi ha investito tanto in questo progetto e ha messo in gioco tutto se stesso per portare a termine un lavoro difficile. Possiamo dire che in realtà il film vale almeno il doppio". Un valore aggiunto dato anche dalle splendide colonne sonore di un altro Taviani – il giovane Giuliano – che ha lavorato insieme a dei musicisti senegalesi creando delle atmosfere che ben rappresentassero la drammaticità dell'opera: "Mi sono reso conto che, nonostante le tragedie che queste persone vivono quotidianamente, la musica africana gode di un ritmo e di una gioia di fondo davvero incredibile. Lavorare a questa colonna sonora ha significato far incontrare persone e culture diverse che, lavorando insieme, hanno messo in piedi uno stesso linguaggio, un codice comune per dire le stesse cose". A chi gli chiede se questo lavoro avrà un seguito, Franco Brogi Taviani risponde col sorriso sulle labbra: "Beh, diciamo che prima di partire di nuovo ci penserei su un attimo. Andare in Africa è un'esperienza che ti segna in maniera indelebile e, quello che si è visto, non si dimentica mai".