Rashômon

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Un film di Akira Kurosawa. Con Toshirô Mifune, Machiko Kyô, Masayuki Mori, Takashi Shimura.
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Titolo originale Rasho-mon. Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 88 min. - Giappone 1950. MYMONETRO Rashômon * * * * 1/2 valutazione media: 4,49 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Natura e verità Valutazione 5 stelle su cinque

di IlaSkywalker


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domenica 13 novembre 2011

Se il cinema convenzionalmente mostra e dimostra il punto di vista di un autore o una testimonianza oggettiva di fatti, Rashōmon di Akira Kurosawa si pone a metà tra i due intenti, andando anche oltre. Il film parla di "punti di vista" e "relatività", servendosi di un fatto increscioso come filo conduttore (l'uccisione di un samurai e la violenza fatta alla moglie di costui da parte di un brigante). 

 

Ambientato nel periodo Heian (X secolo, splendore della corte imperiale, dame e poesie, amore e natura, e la delicatezza dei famosissimi dipinti di corte, statici e tutti simili), fu tratto dall'omonima storia breve scritta da Ryūnosuke Akutagawa nel 1915.

Nella dichiarazione iniziale di intenti (ossia il raccontare la storia), tre personaggi discutono sulla disgrazia umana e sui limiti verso cui il degrado può spingersi. Ad amplificare il senso di sconforto e la pacatezza flemmatica del monaco che prende parola, ci sono la pioggia e l'ambientazione quasi desolata di una delle Porte di Kyoto, la cosiddetta Rashōmon.

 

Protagonisti sono anche i due sopravvissuti all'episodio ed il morto stesso, che assieme al boscaiolo testimone raccontano la vicenda davanti ad un tribunale, spazio indefinibile con sfondo monocromo bianco. Nel momento di confessione agli interlocutori-giudici, questi ultimi non sono visibili, e se ne deduce un parallelismo giudice = spettatore, anche se i personaggi non guardano direttamente in camera, ma ad essa si rivolgono.

Vari flashback espongono le visioni personali del racconto, ognuna con qualche cambiamento di trama.

Il bandito Tajomaru addossa la colpa alla donna; e così fa il samurai, che però (attraverso i deliri di un'elegante medium sofferente) sostiene di essersi infine suicidato; mentre la donna incolpa entrambi ed il boscaiolo verrà più o meno a sostegno di questa tesi. 

Nell'ambito della violenza sessuale e della contaminazione di coppia si è venuto così a formare un triangolo amoroso nel quale una delle tre persone dovrà soccombere. Lo sguardo di sdegno del freddo samurai nei confronti della moglie non viene inquadrato che una sola volta, mentre la macchina da presa insiste sulla reazione che questo provoca sulla donna. Ella, dopo iniziale replica passiva e lamento continuo, si esibirà in un solo di isterica dignità e saggia superiorità nel far notare le mancanze dei due uomini: comodo far gravare su di lei ogni colpa ed avere paura di decidere il passo successivo.   

L'elemento principale dell'episodio in sé non è quindi tanto la violenza, od il dolore, o l'impotenza del trovarsi in ostaggio, ma la consapevolezza che per convenzioni sociali ci sarà per forza bisogno di un ulteriore evoluzione in negativo della cosa. 

Mentre in principio la storia viene ricostruita per mezzo di indizi e dei simbolici  oggetti trovati (cappelli, frecce, un cavallo), la fabula si scioglie solo in apparenza e, superato il dato misterioso, l'insoluto, si sofferma sulla componente umana. La location della foresta, onnipresente, pone l'attenzione sulla dimensione sonora del film fatta quasi esclusivamente di rumori della natura (oltre a musica mystery da trance) e rumori biologici: il pianto della donna ed in particolare il duello finale asmatico ed esasperato. I protagonisti non fanno che ansimare; il bandito preferisce ridacchiare e dare sfogo a smorfie: gli unici rumori possibili per l'uomo sono quelli suoi propri, primordiali.

Lo stesso amplesso-violenza viene mostrato ad intermittenza e trasfigurato nella foresta, che con le sue fronde ed i pieni/vuoti di luce sta a significare sé stessa (e quindi: il male che l'uomo fa e subisce non è attribuibile al degrado umano, ma è propriamente 'naturale') oltre a significare la classica dicotomia luce/buio = bene/male.

 

"Non hanno detto che bugie tutti quanti" / "E' orribile. Se non potessimo credere a nessuno, che ne sarebbe di noi." / "Non capisco" / "E che vuoi capire. Si puo' forse trovare un perché nelle azioni degli uomini?"

Quando i tre viandanti sotto la porta di Rasho sembrano arrendersi all'incomprensibilità della natura, accusandosi e ponendosi violentemente gli uni contro gli altri, l'ennesimo pianto viene udito: è quello di un neonato, lì abbandonato.

Ultimo tassello dell'intrico di morte è un ritorno alla vita, e apparentemente, alla speranza.

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