francirano
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lunedì 1 febbraio 2016
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un gigante minimalismo
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Se ad un primo, distratto, sguardo, Fat city puo' apparire come un film ben fatto ma nulla più, è sufficiente soffermarsi un istante sui dettagli per comprendere che in questa pellicola nulla è lasciato al caso. Non lo sono i dialoghi, che solo ad un orecchio disattento potrebbero apparire vuoti o inconcludenti; non lo è la recitazione, posata e minimalista, di un cast inarrivabile; non lo è la colonna sonora semplice e toccante; non lo è la fotografia, priva di gigantismo eppure cosi' penetrante; e non lo è la regia che quasi pare non esistere eppure guida in maniera sublime l'intera opera.
Ogni cosa, in Fat city, è calibrata in maniera realistica ed emozionante. Da un vestito con la cerniera abbassata alle parole vomitate fino al silenzio pregno di significato che ci viene incontro nel finale.
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Se ad un primo, distratto, sguardo, Fat city puo' apparire come un film ben fatto ma nulla più, è sufficiente soffermarsi un istante sui dettagli per comprendere che in questa pellicola nulla è lasciato al caso. Non lo sono i dialoghi, che solo ad un orecchio disattento potrebbero apparire vuoti o inconcludenti; non lo è la recitazione, posata e minimalista, di un cast inarrivabile; non lo è la colonna sonora semplice e toccante; non lo è la fotografia, priva di gigantismo eppure cosi' penetrante; e non lo è la regia che quasi pare non esistere eppure guida in maniera sublime l'intera opera.
Ogni cosa, in Fat city, è calibrata in maniera realistica ed emozionante. Da un vestito con la cerniera abbassata alle parole vomitate fino al silenzio pregno di significato che ci viene incontro nel finale.
Pare, a tratti, di ritrovarsi tra i degradati personaggi di Bukowski, ma descritti con una finezza psicologica che rimanda piuttosto al più ispirato dei Carver. Il tutto condito con una secca ironia che fa da contrappeso alla tragedia umana.
Per comprendere la grandezza del film sia sufficiente citare il brevissimo passaggio (tre inquadrature, non più) con il quale è presentato lo sfidante Lucero. Tre inquadrature che improvvisamente danno la dimensione di tutta la sua umanità e finiscono per impattare sullo spettatore in maniera potente.
Non c'è banalità, in questo film. Tutto è dannatamente realistico, ivi compresa la costruzione della storia, le situazioni, lo sviluppo della sceneggiatura che evita con la semplicità di bere un bicchier d'acqua, tutti i luoghi comuni e gli sterotipi.
La grandezza di questo film è tale che se ne puo' parlare in termini di gigante minimalismo. POchi film hanno mai saputo essere cosi' semplici e cosi' complessi al tempo stesso; cosi' spogli e cosi' ricchi; cosi' parlati e cosi' silenziosi.
L'unica pecca, nella versione italiana, è il doppiaggio. Consigliabile assolutamente una visione in lingua originale. Tutt'alpiù sottotitolata.
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luca scial�
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lunedì 14 ottobre 2013
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storia di un boxer caduto in disgrazia
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Keach, un ex pugile trentenne caduto in disgrazia dopo il divorzio con la moglie, senza lavoro, incontra in palestra Ernie, un diciottenne lì per allenarsi da amatoriale. In lui ci vede un talento e decide di segnalarlo al suo manager per farne un campione. Il ragazzo ha stoffa, ma è caratterialmente molto diverso da lui: più quadrato e responsabile, al punto da decidere di mettere su famiglia molto presto e trattare la boxe come un semplice hobby. Keach nel frattempo trova un lavoro come raccoglitore e convive con una donna alcolizzata mentre il suo uomo è in carcere. Ma non riesce a dare una svolta alla sua vita.
Huston, regista graffiante, pittore naif di un'America degli emarginati e dei diseredati.
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Keach, un ex pugile trentenne caduto in disgrazia dopo il divorzio con la moglie, senza lavoro, incontra in palestra Ernie, un diciottenne lì per allenarsi da amatoriale. In lui ci vede un talento e decide di segnalarlo al suo manager per farne un campione. Il ragazzo ha stoffa, ma è caratterialmente molto diverso da lui: più quadrato e responsabile, al punto da decidere di mettere su famiglia molto presto e trattare la boxe come un semplice hobby. Keach nel frattempo trova un lavoro come raccoglitore e convive con una donna alcolizzata mentre il suo uomo è in carcere. Ma non riesce a dare una svolta alla sua vita.
Huston, regista graffiante, pittore naif di un'America degli emarginati e dei diseredati. Traspone un omonimo romanzo, lanciando in un ruolo da protagonista un giovane Stacy Keach, che però nella sua carriera deluderà le grandi potenzialità mostrate in questo lungometraggio, trovando più spazio in Tv. La boxe assume un ruolo marginale, perchè il vero ring da affrontare è la vita.
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filippo catani
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domenica 6 maggio 2012
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la boxe come via d'uscita dalla provincia
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In una piccola cittadina della california un ex pugile giunto a un passo dalla consacrazione mondiale ma rovinato dal suo carattere e dalle donne sciagurate con cui si è accompagnato, incontra per caso in palestra un giovane che tira colpi. Impressionato dalla bravura del giovane lo manderà dal suo vecchio manager.
Ottima pellicola firmata John Huston a cui forse si può giusto rimproverare qualche sequenza leggermente troppo lenta. Per il resto il film mette in scena, senza filtri di sorta, le difficoltà della vita di provincia e di chi non riesce ad abituarcisi. E così un uomo giunto a un passo dal successo finisce per accettare lavori umili per sopravvivere ma non perde mai occasione nè per attaccare briga nè per gettarsi tra le braccia dell'ennesima donna sbagliata.
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In una piccola cittadina della california un ex pugile giunto a un passo dalla consacrazione mondiale ma rovinato dal suo carattere e dalle donne sciagurate con cui si è accompagnato, incontra per caso in palestra un giovane che tira colpi. Impressionato dalla bravura del giovane lo manderà dal suo vecchio manager.
Ottima pellicola firmata John Huston a cui forse si può giusto rimproverare qualche sequenza leggermente troppo lenta. Per il resto il film mette in scena, senza filtri di sorta, le difficoltà della vita di provincia e di chi non riesce ad abituarcisi. E così un uomo giunto a un passo dal successo finisce per accettare lavori umili per sopravvivere ma non perde mai occasione nè per attaccare briga nè per gettarsi tra le braccia dell'ennesima donna sbagliata. E così anche il nuovo giovane pugile che dovrà fare i conti con lo spietato (e mai troppo limpido) mondo della boxe cercando di capire se e quando sarà il momento di mettere su famiglia. Un film amaro come il suo finale che rende però senza giri di parole la situazione di questi uomini ai margini della vita e della società e che magari vedevano nella boxe una via di riscatto sociale e personale. Ottima anche la scelta del cast.
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wolvie
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martedì 2 marzo 2010
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quando il cinema è arte
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John Huston andrebbe studiato a scuola,sia per i suoi film che per la sua vita.Fotografa un'America dei loser che non lascia nulla al caso,perfino le canottiere sono imbrattate al punto giusto,l'arte fa capolino in ogni inquadratura e guida la schiera dei rimandi pittorici americani Hopper.Fotografia eccezionale e attori sopra il livello medio,ma d'altronde in quegli anni i film avevano storie da raccontare e guardare i film di Huston,Altman,Peckinpah,spesso è più salutare o intellettuale del leggero un romanzo.Si parla molto in questo film di perdenti dove si pensa di trovare soluzioni economiche dove non esistono,che sia il raccolto a cottimo dei campi,il ring scalcagnato di una squallida palestra,il bar come luogo metafisico e spirituale.
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John Huston andrebbe studiato a scuola,sia per i suoi film che per la sua vita.Fotografa un'America dei loser che non lascia nulla al caso,perfino le canottiere sono imbrattate al punto giusto,l'arte fa capolino in ogni inquadratura e guida la schiera dei rimandi pittorici americani Hopper.Fotografia eccezionale e attori sopra il livello medio,ma d'altronde in quegli anni i film avevano storie da raccontare e guardare i film di Huston,Altman,Peckinpah,spesso è più salutare o intellettuale del leggero un romanzo.Si parla molto in questo film di perdenti dove si pensa di trovare soluzioni economiche dove non esistono,che sia il raccolto a cottimo dei campi,il ring scalcagnato di una squallida palestra,il bar come luogo metafisico e spirituale.Guardate il finale,dopo tanto dialogare il tempo porta via tutto,anche davanti ad una tazza di caffè fatta da un vecchio cinese non resta che il silenzio.E' Steinbeck che fa capolino da tutte le parti,con notevoli rimandi di un iniziale Bukowski,non resta che guardarlo ed ascoltarlo,perchè nella colonna sonora c'è una struggente canzone di Kris Kristofferson e perchè in una vetrina da barbiere si specchia un giovanissimo Morgan Freeman.
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