L’opera seconda dei borgatari D’innocenzo è il classico esempio di cinema “da festival”, ovvero un oggetto cinematografico che estrapolato da una kermesse radical chic lascia (molto) poco.
Le favole, e si presume pure le favolacce, sono storielle morali che hanno un capo, un corpo e una coda, ma qui non v’è traccia né di finalità più o meno edificanti, o anti-edificanti che è pure meglio, né di storie vere e proprie, perlomeno che siano minimamente articolate.
E’ tutto un susseguirsi di chiacchiericci e rumori, bozze improvvisate e intuizioni prive di sviluppi, in poche parole … nulla.
A meno che non si considerino “contenuti” e “messaggi” le solite tiritere su periferie degradate, genitori orchi, bimbi vittime designate d’una società edonista e bla, bla, bla.
La principale preoccupazione degli improvvisati sceneggiatori pare sia il tentativo di provocare e destabilizzare gli spettatori attraverso scene clou più o meno scabrose, in verità tiepide pure esse, tutto il resto è noia.
Intendiamoci, i fratelloni romani un certo ruspante talentaccio ce l’hanno e si vede nel film: buona confezione, cast adeguato (specialmente i ragazzini) e perché no qualche bella intuizione. Su tutte, il titolo del film, la voce off furbescamente evocativa e la suggestiva colonna sonora sui titoli di coda.
Tocchi di classe che non bastano a salvare un lavoro mal scritto e concepito, ma che farebbero ben sperare sul futuro dei registi.
Anzi, no, è una speranza vana: nel mondo reale chi sbaglia paga, ma facendo tesoro dei propri errori migliora cercando strade diverse.
In questo caso gli errori sono stati premiati con acclamazioni da piazza (rossa), pacche sulle spalle e lingue in bocca. I due romanacci non cambieranno strada e a noi toccherà sopportare l’ANICA che seleziona questo capolavoro radical-chic come rappresentante italiano agli Oscar.
Inutile dire che saranno ben pochi i giurati dell’Academy a reggerlo fino ai titoli di chiusura: da quelle parti pretendono emozioni, non aria fritta.
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