La Casa di Jack |
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Un film di Lars von Trier.
Con Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan.
continua»
Titolo originale The House That Jack Built.
Thriller,
Ratings: Kids+13,
durata 155 min.
- Danimarca, Francia, Germania, Svezia 2018.
- Videa
uscita giovedì 28 febbraio 2019.
- VM 18 -
MYMONETRO
La Casa di Jack
valutazione media:
3,01
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Lars von Trier e la psicanalisi fai da tedi johnny1988Feedback: 5532 | altri commenti e recensioni di johnny1988 |
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venerdì 1 marzo 2019 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
"The House that (LARS) built"
In pochissime parole: confessioni di una mente pericolosa.
5 Capitoli, tutti collegati dal filo rosso del sangue e dell'omicidio. Un disturbato misantropo americano sullo sfondo degli anni '70 dialoga con una voce fuori campo per 4/5 del film alla quale confessa le sue nequizie.
Che si può dire? Gli aggettivi si sprecano. Si dice sempre tanto su Von Trier, sul suo gusto perverso per l'eccesso, l'estroversione, il guignol e i sottotesti estremamente polemici rivolti alla crudeltà congenita dell'essere umano. Tutto è simbolo, segno e icona nell'ultimo capitolo della filmografia dell'autore danese. Ogni parola, suono o immagine fa riferimento a qualcosa di articolato e colto, che sia ora Dante, Goethe, Gould, Dylan, l'architettura gotica o la tragedia greca. Come già aveva compiuto in Nymphomaniac, Von Trier racconta, attraverso la chiave del dialogo fuori campo con i toni da seduta psicoterapeutica, sé stesso, la personalissima visione del mondo e della Storia dell'uomo e la dialettica manichea fra il Bene e il Male, Istinto e Ragione, Odio e Amore. Con costante immersione nella filosofia, nella letteratura, nella tragedia, nella psicologia e nell'arte.
Se da una parte forse l'aspetto più stimolante di tutta questa complessa architettura sono proprio le lunghe parentesi riflessive del protagonista (e di Lars stesso), dall'altra forse il profluvio di immagini e del granduignolesco splatter non trova altrettanto spazio sufficiente per rendersi giustizia. C'è da chiedersi in fondo che cosa voglia davvero Lars Von Trier. Guardandolo, pare che la dialettica della violenza fisica, la stupidità con cui tratteggia i suoi personaggi e la profondità culturale con cui fa letteralmente "lezione cinematografica" con ogni inquadratura, ricalchi in qualche maniera la stessa personalità contrastata (e disordinata) dell'autore, come se quest'ultimo combattesse fra un istinto distruttivo e uno invece totalmente speculativo e freddo. La gente esce di sala inorridita, infastidita, raccapricciata (perché paghino il biglietto se già conoscono le premesse, poi, vallo a sapere!), ma non dovrebbe farsi impressionare così facilmente. Temo che i limiti principali di Von Trier, in questo caso, stiano proprio nell'incompatibilità del suo modo di fare lezione allo spettatore - senza che dica poi qualcosa di veramente profondo o innovativo - e l'eccesso estetico delle immagini, quasi come se l'obiettivo - come già è accaduto in passato - si traducesse in una sorta di autocelebrazione narcisista e di ironica autoassoluzione. Un esperimento che già andava molto di moda nei mitici anni '60 e '70 (chi si ricorda Antonioni?), ma che oggi, per lo più lasciano il tempo che trovano. Forse la mia delusione deriva sempre dalla pretesa che chi fa cinema debba insegnare e trasmettere un messaggio collettivo con l'uso della metafora o con la totale trasparenza intellettuale e spirituale. E temo che non sia il caso di Von Trier, che da dopo Dogville pare essersi raso da solo la sua casa (come fa il Jack del film, sempre insoddisfatto) e farsi la psicoanalisi da solo.
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