minleo
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sabato 11 maggio 2019
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un gioiello surreale
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Siamo andati al cinema senza troppe aspettative e ci siamo trovati di fronte a un piccolo gioiello. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche profondamente calato nella realtà locale, Ilva sullo sfondo. I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in basso nel sentimentalismo o nella banalità. Bella la fotografia, felicissima la scelta del dialetto.
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loland10
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martedì 14 maggio 2019
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tara...ilva
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“Il grande spirito” (2019) è il tredicesimo lungometraggio del regista-attore pugliese Sergio Rubini.
Taranto e la Puglia, il Sud e l’Ilva, il Silenzio e i fondi, le giostre lavorative e le ruberie sottobanco.
Sergio Rubini ci mette animo e passione in questo racconto fatto di impegni e disimpegni dove l’incontro tra Tonino e Renato, ovvero Cervo Nero e Barboncino. I nomi e i sottonomi, la città e i suoi tetti, la miseria con ladri e piccoli quartieri. Si apre un piccolo mondo nel destino non cercato nella fuga come panorama alla vita
vacua e inutile per gli ultimi e i diseredati.
Un western metropolitano o meglio da ‘piccionaia’ per una città estrema dove si vede poco ma si immagina tutto.
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“Il grande spirito” (2019) è il tredicesimo lungometraggio del regista-attore pugliese Sergio Rubini.
Taranto e la Puglia, il Sud e l’Ilva, il Silenzio e i fondi, le giostre lavorative e le ruberie sottobanco.
Sergio Rubini ci mette animo e passione in questo racconto fatto di impegni e disimpegni dove l’incontro tra Tonino e Renato, ovvero Cervo Nero e Barboncino. I nomi e i sottonomi, la città e i suoi tetti, la miseria con ladri e piccoli quartieri. Si apre un piccolo mondo nel destino non cercato nella fuga come panorama alla vita
vacua e inutile per gli ultimi e i diseredati.
Un western metropolitano o meglio da ‘piccionaia’ per una città estrema dove si vede poco ma si immagina tutto. Tra le luci offuscate mattutine, le ombre e penombre e gli sguardi dall’alto mentre lo smog industriale si alza e ammanta i colori notturni di case addormentate.
In un mondo pieno di basse qualità, di ladruncoli vili e di ragazzi facili al grilletti,
dove il sito e le sembianze funeree ritrovano gusto in un linguaggio dialettale, fangoso, slabbrato e impoverito l’incontro tra due volti contrapposti arriva ad essere un luogo fisico (nel senso vero) di non-senso, di itinerario, di prospettiva e di congiungimenti (ir)reali.
Una rapina, un palo, uno sparo e un borsone pieno: Barboncino è lì, sale le scale, vede il disastro, un amico per terra e un boccone prelibato. Apre la finestra e quasi senza pensarci scappa con il malloppo tra balconi, terrazze e tetti della città. La fuga è ben girata, gli amici di combriccola vedono e inizia la rincorsa fino ad un nascondiglio...e uno strano incontro. Il borsone sempre a fianco, una caduta da un’impalcatura e il preziosissimo denaro finisce sotto un cumulo di materiale edilizio. Una ferita alla gamba, una guarigione lenta e l’amico per caso si adopera per rigenerarlo.
Uno strano connubio con questo incipit coinvolgente e diverso, salutare e ironico. Nella Taranto del fumo industriale, le luci naturali e artificiali nascondono problemi e vizi, ruberie e raggiramenti.
Il terrazzo di arrivo diventa luogo di vista privilegiato e il binocolo prestato dal suo amico (silenzioso) portano immagini dei suoi ‘conosciuti di strada’. Un terrazzo sulla città (quasi il set di memoria hitchcockiana) uno sguardo sul mondo inferiore, un set fuori posto e segni lontani.
Un film che spia, che osserva, che chiosa cartoline senza un vero saluto, che cimenta spiragli di contrapposte vite senza fini.
Un Sioux che vuole vincere la sua battaglia contro un nemico che non si vede, un ladruncolo debosciato che vuole uscire dal lunario da tutti abbandonato; il grande spirito aleggia. Un fuori di testa e un fuori di fuga che stranamente si conoscono senza saperlo, si aiutano senza chiederlo, si salvano dal nulla promettendosi il nulla. Tonino e Renato sono indesiderati, debosciati, ultimi e con menti contorte.
Immune da difetti, indiavolato e per quanto (im)mobile, ogni momento pare silenziosamente efficace e (im)pertinente desiderante. Un film dove il gioco dell’incontro si scalda senza calore e si spegne senza lo stoppino di una candela. Nel mentre la città s’addormenta e si sveglia i tetti guardano un alto forno e un fumo perenne, un marchio di ieri e dell’oggi gramo.
Gente di Taranto invisibile e indiana, gente che si accontenta, gente che subisce e quel finale in odore di pallottole è la battaglia invisibile tra estreme vite senza una notizia, tra volti che amano se stessi....senza profumi.
E il passo veloce di Tonino tra un lungomare e la fila di auto si scompone per fuggire. Un ‘Oltre Taranto’ verrebbe da dire (quasi verseggiando in modo truce l’aplomb di Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’ del 1979) alla conquista di un luogo ancora da conoscere.
Sioux o non sioux, esperimento o fatuo incontro, sorpresa o nascondiglio: ecco che Cervo Nero balla, senza paure alcune, aspetta la sua redenzione. Quasi uno scompiglio nei piani di Barboncino. Un animale che incute paura e un animale senza padrone: uno sconfitto per sconfitti. È il ‘verismo’, crudo, mesto e volgare di una città che vuole ribellarsi e ‘balla’ con l’indiano per svegliarsi piena di vita. È il simbolo (i.l.v.a.): innocua, libera, vittoriosa e amara.
Rocco Papaleo (Renato) ha il personaggio della sua vita, riesce a guadagnare molti punti e ad essere dentro il suo movimento sempre. Ha trovato la grandezza sprecandosi senza un tetto e sbucando senza un volto. Vive in pausa perenne tra visioni dall’alto e uno spirito ancora inarrivabile. Finalmente, verrebbe da dire, un ruolo prettamente misero ma efficace, con occhiali coprenti, una barba incolta e un vestiario post rionale. Il bel volto scarno e asciutto scava il sogno irreale di un mondo sconosciuto. E Barboncino incontra un qualcuno che suona la carica finale quando non ci sei e fuori schermo. Un ballo sioux e un passo di danza da western perduto per sempre. Un colpo di freccia e un colpo di teatro che rasentano una tenerezza infantile con un sangue rosso che azzera la morte della Taranto sconosciuta sopra dei balconi dispersi tra porte di sicurezza, scale interne e parabole moderne mentre l’Ilva dal fondo sfuma rabbia e spadroneggia nenia nel languido panorama verso il mare.
Sergio Rubini(Tonino) ammonisce il suo personaggio e da il la al suo dirimpettaio Rocco Papaleo. Un dono a chi ha di fronte. Il gesto del binocolo è solo un inizio. Ma il regalo è una partecipazione strana, composita e surreale. Una recitazione a soggetto, quasi inventata, con sottotitoli per un dialetto non sempre comprensibile.
Forse un’asciuttezza e una maggiore attenzione al linguaggio avrebbe giovato all’intera pellicola. Restano i sali scendi delle scale e scalini con un senso metaforico convincente. Fotografia (Michele D’Attanasio) di grande impatto tra diurni e notturni, mestizie e panorami. Musica (Ludovico Einaudi) sincera ed elegante, ansiosamente serale. Regia presente, pastosa e sentita.
Voto: 7/10 (***).
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eugenio
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domenica 19 maggio 2019
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un western crepuscolare tra miseria e nobiltà
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Meglio nudi che prigionieri della civiltà!
Urla così uno straordinario Rocco Papaleo nel quattordicesimo film diretto da Sergio Rubini dall’emblematico titolo Il grande spirito. Una storia che nasce come western crespuscolare e che si muove tra le spire velenose dei quartieri popolari di Taranto funestati dall’acciaieria Ilva e dalle guerre tra bande. In uno di questi palazzi, in una terrazza ingombra di catini, antenne e panni stesi dove i suoni della civiltà arrivano attutiti, vive un reietto (impersonato da Rocco Papaleo) che si fa chiamare Cervo Nero e che crede di essere un sioux in lotta contro l’uomo bianco, lo yankee.
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Meglio nudi che prigionieri della civiltà!
Urla così uno straordinario Rocco Papaleo nel quattordicesimo film diretto da Sergio Rubini dall’emblematico titolo Il grande spirito. Una storia che nasce come western crespuscolare e che si muove tra le spire velenose dei quartieri popolari di Taranto funestati dall’acciaieria Ilva e dalle guerre tra bande. In uno di questi palazzi, in una terrazza ingombra di catini, antenne e panni stesi dove i suoni della civiltà arrivano attutiti, vive un reietto (impersonato da Rocco Papaleo) che si fa chiamare Cervo Nero e che crede di essere un sioux in lotta contro l’uomo bianco, lo yankee.
Sguardo allucinato, un paio di occhiali, una consumata tuta blu e una bandana rossa stretta a mo’ di bandana cinta attorno alla testa, l’uomo dall’alto guarda lontano, scrutando l’orizzonte marcio della società che brucia, oltre la corruzione del sottosuolo magnificato. Un giorno vede arrivare un “suo simile”, un criminale di bassa leva, Tonino detto "Il Barboncino" (Sergio Rubini, allampanato nella sua mise di “capellone”) in possesso di un cospicuo malloppo sottratto ai suoi compari in una grottesca quanto rovinosa fuga in cui finirà mezzo azzoppato.
Inutile dire che tra Cervo Nero e Il barboncino, si creerà un legame di amicizia (lui lo curerà dalla ferita) e complicità. Riusciranno i nostri due prodi, in un’improvvisato duetto all’armata Brancaleone, a vincere la loro personale crociata contro gli uomini bianchi? O finiranno sbranati dal lupo per riuscire a difendere quel maledetto malloppo rimasto sepolto in un cantiere?
Il grande spirito si inserisce nel filone di film come La terra, L'uomo nero, una pellicola mai banale, malgrado la semplicità di una trama di fondo che potrebbe ricordare una commedia. Nell’incursione al surreale, al tema di una favola che vista oggi appare quasi assurda in cui le donne appaiono tutt’altro che fate turchine (vedasi la donna amata da Tonino, una brava Bianca Guaccero, dalle licenze molto ardite), si muovono ieraticamente in un dramma da camera che ricorda Dobbiamo parlare, due grandi attori come Papaleo e Rubini, capaci di agilità e leggerezza da film francese nei loro funambolici scatti.
Le rare inquadrature di un mondo “esterno” oltre quella terrazza, più frequenti nella parte finale (girata di notte con un buio che metaforicamente avvolge tutto come in Mio cognato) mostrano umanità sempre più coercitive e violente, nell’abisso dei ricordi della malattia mentale, nei simboli di un mondo atono, trepidante, in perenne corsa che insegue la vittima fino a rinchiuderla malgrado la saggezza di fondo di apparenti quisquilie.
Rubini, ereditando la grande tradizione italiana, nel dialetto barese che ci fa sorridere in alcune azzeccate scene, si avvicina a Pirandello (il matto che nella sua pazzia appare l’unico capace di rivelare verità inaspettate alla massa) condendo lontane note filosofiche con una cupa tradizione crepuscolare con rimandi a Quentin Tarantino su cui chimerica spicca una speranza in fuga dai demoni del passato: i cieli limpidi del Canada.
A cui i nostri (anti)eroi prosaicamente tendono.
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jonnylogan
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martedì 27 agosto 2019
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l'indiano sul tetto che scotta
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Tonino, soprannominato barboncino, è un piccolo criminale di Taranto spesso dileggiato dai suoi complici e ormai usato semplicemente come palo. Al termine di una rapina la refurtiva rimane nelle sue mani e fiutando la possibilità di riscattare una vita fatta di stenti decide di scappare braccato dagli ex complici e da una loro banda rivale. Durante la fuga trova rifugio all’interno di un solaio dove vive Renato, uno strano personaggio che si finge un Indiano dal nome di battaglia di Cervo Nero. Un western urbano firmato, pensato e scritto a più mani grazie anche all’aiuto dello stesso Rubini, ormai giunto alla sua tredicesima pellicola, e che questa volta ha deciso di dedicare alla sua regione d’origine un’opera quasi del tutto interpretata in dialetto e con sottotitoli indispensabili per captare discorsi pronunciati alla velocità della luce.
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Tonino, soprannominato barboncino, è un piccolo criminale di Taranto spesso dileggiato dai suoi complici e ormai usato semplicemente come palo. Al termine di una rapina la refurtiva rimane nelle sue mani e fiutando la possibilità di riscattare una vita fatta di stenti decide di scappare braccato dagli ex complici e da una loro banda rivale. Durante la fuga trova rifugio all’interno di un solaio dove vive Renato, uno strano personaggio che si finge un Indiano dal nome di battaglia di Cervo Nero. Un western urbano firmato, pensato e scritto a più mani grazie anche all’aiuto dello stesso Rubini, ormai giunto alla sua tredicesima pellicola, e che questa volta ha deciso di dedicare alla sua regione d’origine un’opera quasi del tutto interpretata in dialetto e con sottotitoli indispensabili per captare discorsi pronunciati alla velocità della luce. Una pellicola al tempo stesso capace di essere letta su differenti piani narrativi. Il primo costruito come fuga fra i tetti della città e quindi visto in termini ascensionali. Un altro che vede Tonino come protagonista di una guerra fratricida fra bande criminali. Il terzo, forse il più tristemente subdolo e mediaticamente celebrato, le ciminiere dell’ILVA capaci di avvelenare l’aria di Taranto. Ad attendere Tonino nella sua fuga sui tetti e subito pronto a scollegarlo dai problemi di ogni giorno, c’è Renato, un povero “MI-NO-RA-TO”, come ama scandire lo stesso Tonino, che nel ladro vede “L’uomo del destino” arrivato grazie all’intervento del ‘Grande Spirito’, oltre che un amico dal quale non saprà separarsi facilmente. Rocco Papaleo si cala perfettamente nel ruolo di un personaggio che frequenta esclusivamente i tetti della periferia e le proprie fantasie e che ormai è mal sopportato da vicini ed è anche del tutto abbandonato a sé stesso a causa della scomparsa del padre morto per colpa dei fumi dell’ILVA. Esattamente come Tonino anche Renato desidera la fuga da una quotidianità che ormai non gli appartiene più, con numerosi rapporti ormai corrosi esattamente come nel caso del suo sodale. Completa l’opera una fotografia magistrale della periferia di Taranto firmata da Michele D’Attanasio e una colonna strumentale e malinconica di Ludovico Einaudi, esattamente come la vita dei due protagonisti. Film onirico e al tempo stesso tremendamente ancorato alla vita di tutti i giorni e per questo di difficile classificazione perché sempre in bilico fra dramma e commedia.
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enzo70
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giovedì 15 aprile 2021
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film difficile quanto intenso
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Cervo Nero sogna il Canada, ma vive sui tetti di Taranto, le grandi praterie sullo sfondo sono le acciaierie dell’Ilva. E partiamo dall’interpretazione di Renato da parte di Rocco Papaleo. A mio avviso il miglior film dell’attore lucano che è perfetto nel dare volto e voce ad un uomo che affronta le proprie difficoltà psichiche rifugiandosi dietro un sogno: quello del grande spirito. Ottimo anche Rubini, sia come regista che come attore: Interpreta Renato, un piccolo criminale che alla ricerca di un riscatto ruba ai compari una valigetta che contiene il contenuto di una rapina. Sempre a Taranto, città che diventa essa stessa protagonista in questo film che si svolge su una terrazza, in cui l’utilizzo intenso del dialetto richiede i sottotitoli, in cui una donna costretta a prostituirsi trova motivo di riscatto.
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Cervo Nero sogna il Canada, ma vive sui tetti di Taranto, le grandi praterie sullo sfondo sono le acciaierie dell’Ilva. E partiamo dall’interpretazione di Renato da parte di Rocco Papaleo. A mio avviso il miglior film dell’attore lucano che è perfetto nel dare volto e voce ad un uomo che affronta le proprie difficoltà psichiche rifugiandosi dietro un sogno: quello del grande spirito. Ottimo anche Rubini, sia come regista che come attore: Interpreta Renato, un piccolo criminale che alla ricerca di un riscatto ruba ai compari una valigetta che contiene il contenuto di una rapina. Sempre a Taranto, città che diventa essa stessa protagonista in questo film che si svolge su una terrazza, in cui l’utilizzo intenso del dialetto richiede i sottotitoli, in cui una donna costretta a prostituirsi trova motivo di riscatto. E poi c’è la storia del rapporto impossibile tra uno psico labile ed un criminale, tra il coraggio di un sognatore e le miserie di chi vive nel sottobosco della società. Meravigliose le musiche di Ludovico Einaudi. E’ un film complesso, a tratti ostico, i toni sono spesso duri. Ma che merita un posto tra i migliori film italiani degli ultimi anni.
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fabrizio friuli
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giovedì 31 agosto 2023
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il furfante e il nativo
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In una zona malfamata di Taranto, la città pugliese contaminata dalla presenza dell' Ilva , un furfante che viene nominato Barboncino, sta assistendo un gruppo di malviventi come lui durante un colpo, fon quando lui stesso non sottrae il malloppo e fugge via per non essere trovato e soppresso dai suoi ex collaboratori, ed incontra un soggetto solitario ( presumibilmente un uomo con problemi mentali ) che crede di essere un nativo americano e che la zona degradata dove egli vive sia il west americano, tuttavia, lo stravagante soggetto e il barboncino riescono a diventare amici, inizialmente perché il barboncino non sa più di chi potersi fidare, ma poi comprende che il " nativo tarantino " è l' unica persona di cui può fidarsi veramente.
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In una zona malfamata di Taranto, la città pugliese contaminata dalla presenza dell' Ilva , un furfante che viene nominato Barboncino, sta assistendo un gruppo di malviventi come lui durante un colpo, fon quando lui stesso non sottrae il malloppo e fugge via per non essere trovato e soppresso dai suoi ex collaboratori, ed incontra un soggetto solitario ( presumibilmente un uomo con problemi mentali ) che crede di essere un nativo americano e che la zona degradata dove egli vive sia il west americano, tuttavia, lo stravagante soggetto e il barboncino riescono a diventare amici, inizialmente perché il barboncino non sa più di chi potersi fidare, ma poi comprende che il " nativo tarantino " è l' unica persona di cui può fidarsi veramente.
Il Grande Spirito, sebbene sia il solito lungometraggio italiano nel quale appaiono i criminali ( simili ai malavitosi ) , infatti, il protagonista ( Tonino ) , impersonato dallo stesso Sergio Rubini, ha un modo di apparire e di vestire che lo rende simile ad un mafioso, è un film nel quale il secondo protagonista ( Renato ) ha un valore che supera quello del protagonista, perché lui , in una scena del film, cita un aforisma di Toro Seduto dove afferma che gli " yankee " distruggendo quello che la natura possiede, si renderanno conto in ritardo che, consumando le risorse naturali, condanneranno loro stessi e rimarrà soltanto il denaro che, pur garantendo il potere, non è una risorsa che permette di sopravvivere se nulla è più rimasto. L' aforisma viene citato dal protagonista secondario del film, interpretato dall' attore Rocco Papaleo, tanto talentuoso nelle commedie davvero divertenti come Che Bella Giornata, Nessuno mi può Giudicare, Viva L'Italia è Basilicata Coast to Coast quanto talentuoso in un film drammatico come questo, nulla da aggiungere sulle doti recitative di Sergio Rubini , essendo un attore altamente versatile, anche se il suo personaggio non è molto originale ( un criminale che partecipa ad un colpo ed imbroglia i suoi complici per appropriarsi del malloppo, come un personaggio del film The Italian Job ). La regia del film è un ulteriore punto di forza perché mostra in modo perfetto la parte contaminata della città tra i due mari, ossia Taranto e oltre a Sergio Rubini e Rocco Papaleo, in questo film è apparsa anche un ' attrice pugliese presente nel film Cado Dalle Nubi e nella famosa serie Gomorra : Ivana Lotito e, sebbene non sia un personaggio che appare con frequenza nel corso del film, è una donna sposata con un uomo con il quale ha un rapporto piuttosto conflittuale. Anche se Il Grande Spirito risulta essere il solito lungometraggio italiano nel quale appaiono I malviventi, la zona di Taranto in cui si svolge la vicenda è stata ripresa in maniera notevole e i personaggi principali sono stati ben scritti e caratterizzati, anche Tonino, perché lui, al contrario di Renato, si esprime usando il dialetto tarantino.
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