Una separazione

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Un film di Asghar Farhadi. Con Sareh Bayat, Sarina Farhadi, Payman Maadi, Babak Karimi, Ali-Asghar Shahbazi.
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Titolo originale Jodaeiye Nader az Simin. Drammatico, Ratings: Kids+13, durata 123 min. - Iran 2011. - Sacher uscita venerdì 21 ottobre 2011. MYMONETRO Una separazione * * * 1/2 - valutazione media: 3,62 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

il neorealismo cifrato di Farhadi Valutazione 4 stelle su cinque

di pepito1948


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giovedì 17 novembre 2011

Tutto ha inizio in una città dell’Iran odierno, intasata di macchine, rumorosa  e pulsante di vita come qualsiasi altra affollata città del mondo, con la richiesta di separazione giudiziale di due coniugi sposati da 14 anni con una figlia adolescente a carico: lei vuole approfittare di un permesso di espatrio che impone una scelta rapida, lui non intende  lasciare il padre malato di Alzheimer né consente che la moglie porti con sé la figlia. Il giudice propende per la tesi del marito, e quindi la separazione avviene di fatto perché la donna si trasferisce da sola dalla madre, forse per convinzione forse per mettere alla prova il consorte recalcitrante. L’impellente esigenza di assicurare una sufficiente assistenza sanitaria al vecchio padre induce Nader a ricorrere alla collaborazione di una badante trentenne incinta, il cui stato non è facilmente riconoscibile sotto la lunga veste. Il rapporto si interrompe bruscamente e la badante viene cacciata da casa, ma perde il bambino. Da qui si innesca una dinamica che gradatamente coinvolge i componenti di due nuclei familiari che entrano in un conflitto sempre più vasto, complesso e tortuoso e apparentemente senza soluzione, in cui prevale  il tutti contro tutti, ed attacco e difesa si alternano senza esclusione di colpi, mentre neanche l’autorità (giudiziaria) riesce ad conciliare le diverse posizioni emerse. Inevitabilmente l’incapacità di addivenire ad un accordo soddisfacente per tutti si scarica sulle giovani figlie delle coppie protagoniste, che sapranno dare una lezione di maturità ed un esempio di costruttiva solidarietà  di fronte agli sterili comportamenti dei “grandi”.
Ashgar Farhadi , dopo la presa di posizione a favore di Panahi e di altri registi ed intellettuali dissidenti perseguitati  da uno dei regimi più oscurantisti ed arroccati a difesa della propria verità, si è visto costretto ad aggirare i rischi della censura (e del carcere) raccontando nella forma più rassicurante della commedia, attraverso il filtro invisibile di simbolismi e metafore, una storia di vita privata apparentemente slegata da un particolare contesto per la sua valenza universale. Infatti prende spunto dalla crisi di un matrimonio, “che rappresenta un rapporto tra due esseri umani indipendente dall’epoca o dalla società in cui si vive”, e dalla relativa separazione, che, come avviene altrove, è il primo passo verso la rottura definitiva del rapporto. Già a questo punto, vista l’equivalenza delle ragioni esposte, è difficile per noi spettatori decidere da che parte stare. Ma il complicarsi della vicenda ci costringe, nel susseguirsi delle rispettive argomentazioni, a prendere posizione ed a mutarla continuamente; le responsabilità circolano, nessuno ha pienamente ragione, tutti mentono,  a sé ed altri,  ciascuno palesa limiti e debolezze, tranne chi non ha più l’uso della ragione (il povero vecchio padre) e chi è ancora fuori da logiche distruttive per motivi di età. La tensione e lo sconcerto salgono quanto più s’infittisce il gioco di accuse e controaccuse in un clima sempre più claustrofobico e dilaniante, fino al finale aperto che tuttavia offre un messaggio univoco: davanti all’inquinamento della ragione solo l’innocenza, l’immediatezza e la purezza dei sentimenti di chi non è ancora schiavo dei condizionamenti degli adulti può salvarci (l’occhiata di complicità che si scambiano le due bambine è una delle chicche del film). E’ la filosofia recentemente proposta da Polanski con Carnage. I conflitti individuali e di classe (qui tra media borghesia e precariato infraborghese) si verticalizzano, assumendo una dimensione generazionale.
Ma dov’è in tutto ciò il riferimento critico alla società iraniana ed al suo pervasivo sistema di potere? Innanzitutto già il tema della separazione sembra velatamente alludere allo scollamento tra il regime oppressivo e teocratico vigente ed una delle popolazioni e culture più vivaci, vitali e ricche di tradizioni del mondo asiatico. Inoltre non sfugge il protagonismo ossessivo ed onnipresente del chador, fuori e dentro casa, che richiama la soggezione della condizione femminile alle ferree leggi islamiche secondo le interpretazioni restrittive degli ayatollah, a simboleggiare l’intrusività  dei modelli imposti dal regime finanche nella vita privata. Inoltre la consultazione telefonica della badante con una qualche autorità teocratica (si fa peccato a svestire un uomo malato per lavarlo?) dà un’idea di quanto sia dominante e condizionante la religione di Stato nei comportamenti umani nell’Iran di oggi (ma è poi così diverso da quanto succedeva da noi fino a qualche tempo fa -e da qualche parte forse ancora oggi- quando il confessionale era l’arbitro incontestabile delle nostre azioni?). Insomma un film diverso dalla cinematografia impegnata e drammatica iraniana cui siamo abituati, dai toni gravi e solenni; mancano il pathos e la solennità tragica del “Cerchio” o di “Donne senza uomini”, la poetica della sofferenza, i silenzi gravidi di inquietudini. Forse i dialoghi sono troppo serrati ed “esplicativi”   lasciando troppo poco spazio all’intuitività; ma l’importante è andare oltre la comunicazione cifrata; ciò che non passa dalla porta passa dalla finestra, e, attraverso la rappresentazione di episodi di realismo della quotidianità, Farhadi ci inocula (magari obbligandoci ad una lenta elaborazione digestiva) un senso di disagio che è la risultante di tutto ciò che in qualche modo il regista ha voluto comunicarci. Senza scontentare, a quanto se ne sa, gli organi di censura del suo Paese.

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