E la «guerra di liberazione» arriva in tv
di Maria Pia Fusco La Repubblica
«Siamo liberi!» è il grido ripetuto, eccitato e felice della folla di pazienti, di medici e di infermieri che, tutti insieme, hanno abbattuto le reti intorno all'ospedale psichiatrico di Gorizia e ora corrono all'esterno, inciampando, ridendo, abbracciandosi. È una delle sequenze più emozionanti di C'era una volta la città dei matti., il film di Marco Turco dedicato a Franco Basaglia. C'è un sapore di verità nelle immagini e nelle voci, perché con gli attori e con le comparse ci sono anche pazienti veri e il loro grido viene dal profondo, appartiene al loro vissuto.
C'era una volta la città del matti ricostruisce la straordinaria rivoluzione dello psichiatra veneziano nel rapporto con la malattia mentale, che ha portato alla legge 180, approvata nel maggio 1978. Prodotto dalla Ciao Ragazzi di Claudia Mori per RaiFiction, il film andrà in onda in due puntate su RaiUno il 7 e l'8 febbraio e poi sarà proiettato a Trieste nel corso del convengo internazionale dedicato a Basaglia a trent'anni dalla sua scomparsa, il 29 agosto 1980. «Sono contento che sia un film per la tv. Al cinema forse lo avrebbe visto chi già conosce Basaglia, il pubblico televisivo è molto più vasto» dice il regista. Che non sa esattamente quando ha avuto l'idea: «Basaglia è nell'aria, è sempre un punto di riferimento. Sapevo che sarebbe stata un'impresa difficile e la cosa che mi preoccupava di più era come mettere in scena la malattia mentale senza scivolare nel macchiettistico o nel grottesco involontario» racconta Marco Turco. L'aiuto fondamentale per ricostruire correttamente il lavoro dello psichiatra è arrivato dalla comunità basagliana e soprattutto dai pazienti.
Scritta dal regista con Alessandro Sermoneta, Katja Kolja ed Elena Bucaccio, la sceneggiatura è «il risultato di una serie di interviste agli psichiatri e agli infermieri che con Basaglia erano entrati in contatto. Abbiamo filmato lunghe chiacchierate con gli ospiti di varie strutture, molti dei quali erano stati negli ospedali di Gorizia e al San Giovanni di Trieste. Peppe Dell'Acqua, responsabile dei servizi di salute mentale a Trieste, ci ha assistito sia in fase di sceneggiatura sia durante le riprese, e la presenza di una cinquantina di pazienti nel cast del film ha costretto gli attori a confrontarsi con la realtà».
Basaglia è Fabrizio Gituni, straordinario nel riproporre la voce, la postura e il dialetto veneto dello psichiatra. Un ruolo difficile, perché molto «di reazione» a ciò che si muove intorno: una realtà rumorosa, caotica, disordinata. E anche crudele, come nelle prime sequenze, quando Basaglia, giovane e brillante psichiatra, viene scoraggiato a intraprendere la carriera universitaria a Trieste per via delle sue idee anticonformiste e mandato a dirigere l'ospedale di Gorizia. È il 1961, Basaglia e la moglie Franca Ongaro (Sandra Toffolatti) scoprono l'orrore delle gabbie, i letti di contenzione, le docce gelate, l'uso abituale dell'elettroshock.
Il film racconta con efficacia l'inizio di un lavoro difficile, destinato a rivoluzionare il rapporto tra il personale e i pazienti, per restituire loro una dignità e un'identità cancellata: la sequenza simbolica è quella dei comodini finalmente riaccostati a ogni letto, con i malati che ritrovano i loro oggetti, le fotografie, i ricordi di un passato sepolto all'ingresso in ospedale. Scompaiono le camicie di forza, cominciano le relazioni interpersonali e la libertà di muoversi, fino all'apoteosi delle reti abbattute. La nuova realtà di Gorizia diventa pubblica grazie al servizio I giardini di Abele, realizzato nel '67 da Sergio Zavoli per Tv7 e ricordato nel film con uno spezzone di repertorio. Un altro documento d'epoca è girato a Trieste (dove Basaglia arrivò nel '71), quando nelle strade irrompe Marco Cavallo, un gigantesco cavallo di cartapesta realizzato dai malati, che vi hanno messo all'interno sogni e desideri, e in città comincia a snodarsi un corteo festoso cui partecipano i triestini.
Trieste appare nella seconda parte del film, quella in cui si accenna alle critiche feroci di parte della stampa, agli attacchi di alcuni politici, agli ostacoli contro la legge in preparazione. «Ma tutto questo l'abbiamo raccontato in modo essenziale» dice il regista, «abbiamo privilegiato la forza delle emozioni». Che vengono dai percorsi di alcuni malati. Come Margherita (un'intensa interpretazione di Vittoria Puccini), una ragazza bella e vitale, colpevole di ribellione al collegio, che l'ottuso bigottismo della madre condanna al silenzio dell'ospedale psichiatrico e che solo Basaglia restituirà alla vita. O Boris (Branko Djune), reso muto dalla tragedia della guerra e legato a un letto per quindici anni.
O, ancora, Furlan, l'ex partigiano Cicca-cicca, che non esce dall'infanzia. «Sono personaggi costruiti su storie vere, com'è vera la storia dell'infermiera Nives (Michela Cescon), sorta di sintesi degli infermieri che abbiamo incontrato: tutti ricordano Franco Basaglia come il punto di svolta della loro vita» dice il regista. Che ha avuto il piacere di ottenere l'approvazione di Alberta ed Enrico, i figli dello psichiatra, ai quali ha mostrato C'era una volta la città dei matti un film grazie al quale, spera, «si chiariranno alcune falsità sulla figura e sulle parole di Basaglia. Tutti, anche i suoi detrattori, devono ricordare l'orrore da cui la sua opera è cominciata».
Da Il Venerdì di Repubblica, 29 gennaio 2010
di Maria Pia Fusco, 29 gennaio 2010