Roberto Nepoti
La Repubblica
Allevato come un cane dal sadico gangster Bart, il giovane Danny è diventato un'arma di distruzione di massa: quando gli levano il collare fa spezzatino degli avversari, ci siano "contratti" da onorare o combattimenti clandestini da vincere. Finché, un giorno, non incontra la Provvidenza nei panni di Sam, un accordatore di pianoforti cieco. A contatto con lui, con la sua musica e con la gentile Victoria, il cuore del cane randagio comincia a battere; l'uomo-bestia si mette alla ricerca dell'umanità smarrita.
Sì, d'accordo: il soggetto di Danny the Dog è abbastanza ridicolo; però non stupirà chi conosce Luc Besson - qui sceneggiatore e produttore - di cui interpreta alla lettera l'immaginario popolato di assassini disadattati quanto ansiosi di redenzione. Non è il caso, insomma, di parlare di psicologia, né di esigere verosimiglianza. L'obiezione è un'altra e riguarda un paradosso evidente: per raccontare la conversione dell'angelo della morte alla bontà, il film sgrana un rosario di zuffe una più feroce dell'altra, fatte su misura per alzare il tasso di adrenalina dello spettatore in sinergia con la colonna sonora originale (sparata a milioni di decibel) dei Massive Attack. Che poi le sequenze in questione, coreografate Yuen Wo-Ping, ben girate e montate, siano la vera ragion d'essere di tutta la faccenda, non sfugge a nessuno; ma fa a pugni con la pretesa "morale" della favola.
Da La Repubblica, 10 giugno 2005
di Roberto Nepoti, 10 giugno 2005