I diari della motocicletta

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Un film di Walter Salles. Con Gael García Bernal, Mercedes Morán, Jean Pierre Noher, Mia Maestro, Rodrigo De la Serna.
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Titolo originale Diarios de motocicleta. Avventura, Ratings: Kids+16, durata 126 min. - Argentina, Brasile, Cile, Perù, USA 2004. - Bim Distribuzione MYMONETRO I diari della motocicletta * * * - - valutazione media: 3,00 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Natalia Aspesi

La Repubblica

La bella faccia barbuta del Che col famoso berretto nero spunta ancora sulle magliette rosse e sulle bandiere, pure rosse, delle manifestazioni di piazza e sono i giovani a portarle, ereditate dal padri, dei nonni, o ristampate da qualche astuto nostalgico del Comandarne: assassinato dal regime militare in Bolivia nel 1967, a 39 anni, «per ordine di Felix Rodriguez, all’epoca capostazione della Cia nella zona, che si è in seguito vantato in un libro di quella esecuzione», come scrive Gianni Minà nella prefazione alle memorie di Alberto Granado: che escono adesso col titolo Un gitano sedentario, pubblicato da Sperlng & Kupfer (pagg. 330, euro 16,00). Intanto Feltrinelli ripubblica Latino americana, appunti di viaggio del ragazzo Ernesto Guevara nell’America Latina, uscito per la prima volta nel 1993 e arrivato alla diciannovesima edizione (pagg. 128, euro 5,00), con la fascetta dedicata a I diari della motocicletta, il film che Walter Sailes ha costruito dallo smilzo libretto, in concorso tra pochi giorni al Festival di Cannes (e in uscita in Italia il 21 maggio). È servito al regista messicano anche il libro di Granado, che oggi ha 82 anni ed ha accettato di ripercorrere con la troupe quel viaggio durato otto mesi, dal dicembre 1951 al luglio 1952. in cui lui e l’amico Ernesto de la Senta, attraversarono i meravigliosi paesaggi e la miseria, l’abbandono, il dolore dei dimenticati, degli sfruttati, dei disprezzati, nelle terre ricche di Argentina. Cile, Perù, Colombia, Venezuela.
Tra i ricordi, Granado racconta con un entusiasmo ancor più militante di quello di Gianni Minà (dove c’è il Che, film compreso, c’è sempre la passione di Minà che nessun sarcasmo scemo può scalfire), la Cuba di Fidel Castro che il Comandante assassinato ha potuto vivere per poco. Sulla copertina dei diari c’è una fotografia di un ragazzo,il giovane Ernesto, disteso vicino a una finestra, camicia bianca e pantaloni neri, bella faccia glabra e corrucciata. Sulla copertina dei ricordi di Granado, c’è la foto di due ragazzi sorridenti, in maglietta (a righe quella di Ernesto) e pantalonacci (che oggi faranno certamente moda) mentre remano su una chiatta provvista dl capanna di foglie.
Tutti e due i libri si attualizzano con un’immagine del film (e del documentario di Minà sul film), i due amici a piedi attraverso un deserto desolato (Latinoamericana), e sulla famosa moto scassata, una Norton 500 del 1939 detta «La Poderosa» (Un gitano sedentario).
Certamente ha molto appeal il fatto che i due attori scelti da Salles risultino quasi identici ai due personaggi: l’argentino Rodrigo de la Serna ha le guance tonde e i baffi di Alberto Granado giovane, ed è perfetto come Guevara, senza la barba e i baffi del rivoluzionario, il messicano Gael Garcia Bernal, la star del momento che Hollywood reclama per ora invano. Squattrinato proprietario di un rottweiler da combattimento (Amores Perros), adolescente spinellato e irresponsabile (Y tu mama tambien), seducénte travestito in La mala education di Almodovar (che inaugura il Festival di Cannes), Barnal, con il corpo fragile, il viso affilato, i neri occhioni infuocati, una grande somiglianza con l’Alain Delon di Rocco e i suoi fratelli, trasforma il Che, mito della rivoluzione e del martirio politico, in una icona della generosità, della bontà, dell’altruismo, simbolo di un’a giovinezza incèrta e piena di sogni, ancora apolitica ma in cerca di una strada sacrificale per cambiare il mondo.
A 23 anni Ernesto, studente di medicina specializzando in lebbrologia, e l’amico Alberto, 29 anni, biochimico, lasciano Buenos Aires e le loro famiglie benestanti e partono con la moto perché si accorgono di saper molto dei miti greci e niente del loro immenso continente.
Viaggiano come viaggiavano allora, anche in Europa, i giovani, sprezzanti del denaro, rifiutando ogni comodità. Spesso non mangiano e non sanno dove dormire, ma, scrive Ernesto «non siamo così scannati da non permetterci altro, però dei viaggiatori del nostro stampo morirebbero piuttosto che pagare la comodità di una pensione. Poi il servizio lebbrosi ha deciso di mantenerci…» Il viaggio agli inizi ha tutta la spensieratezza giovane: avventura, motocicletta, ragazze, risate, cadute, marce interminabili con il sacco in spalla, scenari stupefacenti, ignoti e vuoti, grandi laghi, impervie montagne, praterie, ghiacciai, deserti, rovine archeologiche, città, Santiago, Machu Picchu, piogge torrenziali, gelo, umidità soffocante. La felicità dl condividere un’amicizia virile, la pena degli attacchi d’asma che soffocano Ernesto.
I primi incontri con la tragica realtà sociale sudamericana avvengono in Cile: una coppia miserabile ha perso la sua terra perché accusata di comunismo, e a Chiquicamata, il feroce caporalato che sceglie ogni giorno,tra gli affamati, quelli da portare nelle miniere di rame, le più ricche del mondo: ma erano nelle mani della Anaconda Company, come racconta Granado «che apparteneva alla Braden Company e Braden durante la sfida elettorale tra il partito radicale e Peron, aveva rappresentato la lunga mano degli Stati uniti a Buenos Aires. Così ci interessava conoscere quel “mostro economico” che condizionava la politica del Cile per conto degli Stati Uniti e che aveva fatto lo stesso, pochi anni prima, in Argentina».
Walter Salles, autore del superpremiato Central do Brasil, senza mai accennare ad eventi politici, riesce a portare Ernesto e Alberto, e gli spettatori, dalla spensieratezza alla consapevolezza, dalla voglia di avventura al bisogno di politica, dal disimpegno alla militanza. Essenziale il soggiorno dei due ragazzi a San Pablo sul Rio delle Amazzoni in Perù, dove si fermeranno tre settimane, nel giugno del 1952. Lì c’è un grande sanatorio per lebbrosi, «seicento malati che vivono nelle loro tipiche casette nella selva, indipendenti, facendo quel che vogliono ed esercitando liberamente le rispettive professioni...» Il romantico studente rifiuta i guanti protettivi perché sa che la lebbra non è infettiva, convince una ragazza a farsi operare, gioca al calcio con i malati, subisce impavido il ricatto delle suore, niente messa niente cibo, e la sera del suo compleanno, visto che tra i sani e i malati passa il grande fiume, malgrado l’asma decide di attraversarlo a nuoto, per stare con i suoi amati lebbrosi.
La sapienza di Salles è quella di non fare del bel giovanotto un san-tino, ma di fargli vivere tutti gli slanci, e i dubbi, e le ansie, ei sogni di una giovinezza d’epoca che sente di non avere che una strada, un futuro, quello di votarsi agli altri, che in Sudamerica vuole dire alla rivoluzione. Che, ovviamente, ci viene risparmiata. Ernesto sale su un aereo-cargo e torna in Argentina (e solo più tardi in Messico incontrerà Castro e il suo destino). Sappiamo che Alberto si fermò in Venezuela dedicandosi alla cura dei lebbrosi. Si incontreranno di nuovo Otto anni dopo e il Che convincerà l’amico ad andare a vivere a Cuba. Il film si chiude su una serie di fotografie della loro bella giovinezza, sul volto vecchio e intenso di Granado. È stato lui a dire recentemente: «Mi sembra logico che in un contesto ostaggio del mercato, delle menzogne di chi ha il potere, del rifiuto dell’utopia, il suo pensiero torni d’attualità, frantumando il tentativo del mercato stesso di trasformarlo in un gadget, nell’immagine stereotipata del guerrigliero sconfitto o in un simbolo tuo il tempo».
Da La Repubblica, 9 maggio 2004


di Natalia Aspesi, 9 maggio 2004

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