Irene Bignardi
La Repubblica
Il 1958 esercita una curiosa fascinazione sui nostri registi, a giudicare almeno dal fatto che ben due film - il Leone d'oro di Gianni Amelio e Del perduto amore di Michele Placido - cominciano proprio lì, nell'anno del secondo governo Fanfani, di papa Giovanni XXIII, di Krusciov capo del governo sovietico, del pacemaker e del Gattopardo. È sullo sfondo di un mattino d'inverno del 1958 alla stazione di Torino che comincia la cronaca familiare di Così ridevano. Gianni Amelio percorre la sua storia (quanto sia intrisa di autobiografia lo si può intuire dalle parole che il regista ha rivolto a suo fratello durante la cerimonia della premiazione veneziana, chiedendogli di perdonargli tutte le bugie che lui ha raccontato, proprio come il fratello minore del film) scandendola attraverso sei giorni qualsiasi dei sei anni successivi, e disegna il rapporto tra due fratelli emigrati nella Torino delle speranze e del boom. Le ambizioni del film di Amelio - come tutta la sua storia di autore - sono generose e "totali": ma la scelta di mettere a fuoco, sullo sfondo di quei pochissimi formidabili anni, un rapporto tra fratelli che da una parte ricorda il viscontiano Rocco, dall'altra la Cronaca familiare di Zurlini, ma che soprattutto si propone come emblematico di un momento fondamentale della nostra storia sociale, si rivela in effetti un progetto riduttivo. Nonostante (e in parte per) la folla di personaggi e di presenze, nonostante la ricchezza della ricostruzione che fa sfilare macchine d'epoca e riveste Torino di una permanente bruma autunnale, il dramma dell'amore malinteso dei due fratelli si staglia su uno sfondo paradossalmente vuoto, che non lascia percepire granché dei grandi conflitti di quegli anni, della convivenza tra povertà e benessere, del boom annunciato, della battaglia sindacale in una città che era allora il laboratorio sociale dell'Italia in ascesa, per privilegiare piuttosto il dramma dell'incomunicabilità fraterna. Si dirà che si tratta di una legittima scelta dell'autore. Eppure la cornice - più simile all'Albania di Lamerica che alla Torino dell'immigrazione operaia - invade il quadro senza arricchirlo, e anche la bella fotografia di Luca Bigazzi non riesce a dare un sapore di verità a una ricostruzione che odora sempre di teatro. E sarà forse la struttura ad atti - le "giornate particolari", sull'arco di sei anni, in cui rivediamo i due fratelli - ma spesso, nei passaggi di una sceneggiatura confusa, spariscono dei nessi necessari (sono molto misteriose, tanto per dire, le ragioni del delitto di cui il fratello minore si addosserà la colpa). Mentre, su un altro fronte, la recitazione lenta, ansimante, sempre uguale di Lo Verso fa a gara con quella un po' sbalordita del giovane Giuffrida per lasciare lo spettatore fuori dal gioco delle emozioni. Ora che Così ridevano arriva nella sale saranno gli spettatori a stabilire chi avesse torto e ragione nella querelle che ha opposto a Venezia con insolita virulenza i diversi punti di vista della critica e inquinato i piaceri di un Leone d'oro. Vedremo cosa succederà. Ma bisogna aggiungere che anche chi, come il vostro critico, è rimasto deluso dal film, forse sbagliato ma certamente ambizioso, non può alla fine che tifare per Amelio e per la sua visione generosa e appassionata del cinema.
Da LaRepubblica,10 aprile 1998
di Irene Bignardi, 10 aprile 1998