Showgirls

Irene Bignardi

“Che pericolo c’è se un ragazzino di tredici anni vede questo film? Che vada a casa e si masturbi?” finge di domandarsi dalle pagine del pressbook di Showgirls il regista Paul Verhoeven(Robocop, Atto di forza, Basic Instinct), facendo sfoggio di commovente e simulato candore per polemizzare con la censura americana che ha vietato il suo nuovo film ai minori di diciassette anni, in pratica equiparandolo a un porno.
Be’, spiacente per i ragazzini, che hanno però sempre a disposizione alcune pubblicazioni specializzate oltre a numerosi testi letterari di grande interesse e utihta Ma anche in Italia i tredicenni non vedranno Showgirls, e non devono avere rimpianti.
No, non è per il sesso, come pensa Verhoeven, se il suo film si merita qualche divieto e ha ragione a dire che tutto il cinema americano gronda violenza che viene tollerata (toh, non ha diretto lui Basic lnstinct) Il problema sta in quello che, con la scusa di tanti bei nudi sbattuti in faccia allo spettatore inguardonito, il film propugna con sfacciata allegria: che tutto è lecito pur di fare carriera, conquistare le luci del palcoscenico, essere una star. Come Paperino, che in una delle sue storie decretava che “tutto è lecito in amore, guerra e commercio”.
Se dunque uno riesce, calandosi nel ruolo di voyeur, a reggere sino al finale la multimiliardaria stupidità di Showgirls, potrà infatti apprezzare quello che accade in questo Flashdance in versione hard (lo sapevate che quella fiaba anni ottanta è stata scritta da Eszterhas quando era soft?), in questo Eva contro Eva fine secolo: potrà vedere cioè come Nomi Malone (Elizabeth Berkley, uno dei più bei corpi e una delle peggiori attrici dello schermo) scaraventi giù dalla scala di servizio del palcoscenico la star dell’atroce balletto Goddess, Cristal Connors (Gma Gershon), la mandi in ospedale con un’invalidità permanente e prenda trionfalmente il suo posto.
Il critico del “New Yorker”, Anthony Lane, ha definito Showgirls l’unico film su Las Vegas che riesca a essere più volgare della città più volgare del mondo. Ma, appunto, non si parla tanto della volgarità dei gesti e delle parole, che non spaventa più nessuno, quanto della volgarità dell’ideologia del successo veloce e a qualsiasi prezzo. E la cosa è peggiorata, o resa più comica, dal fatto che Nomi è dipinta come una sorta di Giovanna d’Arco della “lap dance” - un esercizio che Verhoeven presenta come nuovo, ma che tanto nuovo non è -: rigorosa, implacabile, fiera, indipendente, pronta a prendere a male parole e a sberloni chi avanza delle pretese su di lei. E poiché in tutto il film c’è un solo personaggio - l’amichetta di colore, Gina Ravera - che riveli un minimo di senso morale, Verhoeven, con la complicità del suo sceneggiatore da molti miliardi Joe Eszterhas, la fa sodomizzare dal suo divo preferito e dai suoi scherani.
Curiosamente questo stupro, e una scopata in piscina sotto il getto d’acqua che esce da alcuni delfini di pietra, sono i due soli rapporti sessuali di un film tutto costruito sul titillamento e il voyeurismo. Sesso dell’età dell’Aids e moralità fin de siècle, ci spiegano gli esegeti della tremenda coppia Eszterhas-Verhoeven, che ha fatto di meglio -ed è tutto dire - con Basic Instinct. A prendere sul serio Showgirls si può crollare per la noia. A prenderlo come la baracconata che è può produrre un irresistibile effetto comico.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996