Tangled Up in Blue

In una Londra caotica e austera, il figlio di un famoso scrittore e intellettuale iracheno affronta le conseguenze della morte del padre, assassinato a Baghdad dopo anni di esilio forzato. Per lui, il padre ha sempre rappresentato un vuoto. Adesso, questo giovane uomo tenta di riempire quel vuoto, ricostruendo il rapporto che non ha mai avuto con il genitore, attraverso gli scritti che gli ha lasciato. Lui, che intende seguire le orme paterne della scrittura, ha già pronto il libro che ogni editore si contenderebbe. Ma non è convinto che sia giusto approfittare della fama del padre per realizzare il proprio sogno.
In questa storia intimista di un immigrato di seconda generazione è condensato tutto il senso di smarrimento provato da chi si sente perennemente straniero, finanche a casa propria. «L'esilio è come una bestia che ti porti dentro, non ti lascia mai e si trasmette di padre in figlio», scrive Rashid Zahawi. In effetti, il protagonista ha ereditato quella "bestia" e la custodisce dentro di sé, come se fosse l'unico vero legame con quel padre che ha vissuto sempre nel ricordo ossessionante della propria terra, fino a doverci tornare a tutti i costi e lì trovare la morte. Per il figlio è diverso, lui non è mai stato a Baghdad, è nato in Europa e avrebbe tutte le carte in regola per realizzarsi lì. Eppure c'è sempre qualcosa che gli manca, che lo rende insoddisfatto, persino nelle relazioni con gli altri, con le donne. Quel senso di estraneità e alienazione che sembra nato con lui, quelle doppie radici di cui non ha mai fatto esperienza e che lo privano di un'identità, al punto tale che nel film non ha neppure un nome. L'ossessione del padre per l'Iraq si traduce nel vuoto e nel disorientamento che corrodono il figlio.
Mentre tenta di rimettere a posto i pezzi del puzzle della propria esistenza, cercandone il senso profondo nelle lettere cariche di bruciante poesia del padre, questo giovane uomo compie un cammino di conoscenza interiore e accettazione che comporta l'abbandono di ogni maschera e l'abbraccio, doloroso ma necessario, della propria verità, che non deve per forza coincidere con quella del padre. Questo percorso di crescita, spesso sospinto dal lento incedere in una Londra notturna respingente e abbacinante con le sue fredde luci colorate, è accompagnato dal regista con il profondo rispetto di chi quel senso di smarrimento - reso autentico dalla misurata e tenera interpretazione di Ian Attfield - l'ha evidentemente conosciuto. Il giovane Haider Rashid, all'esordio promettente nel lungometraggio di finzione, è nato infatti da madre italiana e padre iracheno, il giornalista e regista Erfan Rashid che, come molti altri intellettuali connazionali, ha dovuto abbandonare il proprio paese sul finire degli anni Settanta. 