Pontypool |
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Con Stephen McHattie, Lisa Houle, Georgina Reilly, Hrant Alianak, Rick Roberts (II).
continua»
Horror,
durata 95 min.
- Canada 2008.
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Il virus del linguaggio: antidoti possibili
di Paola Di GiuseppeFeedback: 25414 | altri commenti e recensioni di Paola Di Giuseppe |
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martedì 7 giugno 2011 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Da The Selfish Gene (Il gene egoista), saggio del ‘76 di Richard Dawkins a Pontypool del 2008 molto tempo è passato, se consideriamo la velocità di diffusione di idee, mode e conoscenze negli ultimi 60 anni. Sul meme, “unità base dell’evoluzione culturale umana analoga al gene”, capace, come il gene in biologia, di propagarsi e influenzare l’ambiente circostante, molto è stato detto e gli studi proseguono, le prospettive sono aperte e si presentano problematiche, sociologia e psicologia, biologia e filosofia se ne occupano con l’attenzione che i fenomeni complessi legati alle culture umane sempre richiedono. Non poteva perciò sfuggire un tema così intrigante all’elaborazione e sublimazione che l’arte puntualmente compie del reale, e trentacinque anni di indagini e ricerche sulla memetica trovano oggi, in questo film, una chiave di lettura intelligente e una messa a fuoco capace di suscitare attenzione, conoscenza e, dunque, riflessione. Se compito dell’arte è indicare una strada, ci siamo, Bruce McDonald, ereditando una tradizione che da Romero a Carpenter, Cronenberg e Boyle, non dimenticando quanto di presago ci fosse negli Uccelli del grande Hitch, ci mette tutti sull’avviso. Possiamo partire mutuando un pensiero di Karl Popper: "L'intelligenza è utile per la sopravvivenza se ci permette di estinguere una cattiva idea prima che la cattiva idea estingua noi". L’intelligere è infatti quello che si richiede come antidoto al veleno che il virus verbale, uno dei più subdoli, insinuanti e duri da combattere, ha introdotto nel genere umano, malattia contagiosa non da poco, se consideriamo che l’inizio della diffusione dei linguaggi si perde in un indefinibile e non circoscrivibile tempo mitico. L’uso del linguaggio, esclusivo privilegio degli uomini, trovò nella memoria un alleato prezioso, mnemotecnica e mimesis, radici linguistiche comuni e stessi intenti, si presero a braccetto e il cammino delle civiltà iniziò. La scrittura venne come naturale conseguenza e nacque il mito di Theuth presso gli Egizi D’improvviso però, e senza un perché razionalmente spiegabile, gli uomini diventano zombies, si divorano a vicenda e il morso è contagioso, il virus è nella parola, è la parola stessa, non c’è scampo che nel silenzio. E’ possibile sottrarsi a questo scenario apocalittico? Ne dubitiamo fieramente, ma ci proviamo, almeno, rifugiandoci nella non omologazione, ad esempio, e, appunto, nell’intelligere, come tenta di fare Grant Mazzy, uno straordinario Stephen McHattie, faccia da schiaffi e voce arrochita dal fumo e dal whisky aiutato da lei, la donna che sempre dev’esserci quando l’uomo trema, ed è una brava Lisa Houle, sufficientemente ironica e abbastanza materna per sottrarsi anche lei al virus del linguaggio. Grande e bella allegoria questa di McDonald, un film-horror in cui di horror non è necessario veder nulla, è tutto nella mente e nelle parole che fanno crescere la tensione a dismisura dentro quell’angusto spazio claustrofobico della stazione radio, dove arrivano notizie sconnesse, parole che devono tacere altrimenti si muore, devono svuotarsi del loro senso e cercare una vita nuova, ma non, però, in un altro significante razionalmente dato, bisogna pescare nello strato profondo, quello analogico, quello della poesia, dell’arte, quello dove la parola “uccidere” può essere l’equivalente della parola “baciare”. Questa è la salvezza e questo è il finale, chiaro, bellissimo e semplice di un grande film.
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