Papusza

   
   
   

Una bambola spezzata Valutazione 4 stelle su cinque

di Paola Di Giuseppe


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lunedì 20 aprile 2020

Una poetessa rom nata e cresciuta in Polonia, Bronisława Wajs, ma per tutti era Papusza, che in lingua rom significa bambola.La madre l’aveva partorita sola, sulla terra ghiacciata, gridando “mamma”.Poco prima si era fermata in paese a guardare una vetrina per ricchi gaje, i non rom, e una bambola vestita da regina l’aveva incantata.Non volevano chiamarla Papusza gli altri della sua kumpania, ma lei no, testarda, volle darle quel nome che le portò tanta sfortuna e tanta ne portò al suo popolo.L’aveva detto la vecchia maga venuta a pronunciare le formule magiche, e le vecchie maghe bisogna ascoltarle.Soprattutto se, crescendo, maturano strane voglie. Strane per una donna, peggio se rom.Papusza voleva imparare a leggere e scrivere.1908 o 1910, dalle parti di Lublino, la kumpania fa una sosta e Papusza viene al mondo.A 15 anni è venduta ad un uomo anziano, suonatore di arpa. Resterà con lui, senza figli, fino alla morte del vecchio. Quando l’avevano costretta al matrimonio aveva pregato il suo Dio di sigillarle l’utero, e almeno quella grazia le era stata accordata.Papusza era bella, nella sua testa c’era la poesia e sgorgava come un ruscello limpido, ma aveva bisogno di scriverla, di carta e penna, conoscere la forma delle lettere, il loro suono:“Come ho imparato? Chiedendo ai bambini che andavano a scuola di mostrarmi come scrivere le lettere. Rubavo sempre qualcosa e gliela portavo così poi loro mi insegnavano in cambio. Ed è così che ho imparato le lettere a, b, c, d e così via.”Poetessa nomade di un popolo senza fissa dimora, senza “memoria”, lingua e segreti non dovevano essere svelati, pena l’ostracismo.Dunque Papusza ebbe il destino che meritava, di questo fu accusata.La più grande poetessa rom del dopoguerra,semisconosciuta e sempre più povera, si nascose nei boschi ucraini della Volinia durante le persecuzioni naziste.Si salvò,una delle poche fortune della sua vita,e trascorse lunghi anni che solo la musica e il suo canto seppero allietare, scrisse canzoni per il marito Dionizy e il suo gruppo, cercò di afferrare con i suoi versi la natura, il cielo, il cammino della carovana, un mondo gitano che stava scomparendo.Saranno la “memoria” di una cultura sconosciuta quei versi, una cultura ormai sparita, ingoiata da persecuzioni e modernità.Ma Papusza pagò duramente con l’esilio dal suo popolo, la povertà, la solitudine, la pazzia. Nel 1949 il traduttore ed etnologo polacco Jerzy Ficowski, vissuto due anni sui carri gitani, decise che i suoi versi dovessero essere conosciuti.Forse Jerzy era l’uomo che Papusza avrebbe amato, il film è discreto ma eloquente su questo,e forse anche Jerzy l’avrebbe amata, ma appartenere a mondi diversi è come vivere su due pianeti.La poesia li fa incontrare, le ballate di Bronisława Wajs appaiono nel 1950 sulle colonne della rivista polacca Problemy, ma se per Jerzy quella passione fu l’avvio di una brillante carriera accademica,per Papusza fu solo dolore. Rinnegata dalla sua comunità, dichiarata “impura”, la mente si sconvolse e l’ospedale psichiatrico la ospitò per mesi.Alla fine Papusza decise di non scrivere più fino alla morte, si convinse di aver commesso una colpa imperdonabile imparando a scrivere. Bruciò le sue poesie, poche ne sono rimaste e su lei calò il silenzio fino a pochi anni fa.La bambola era spezzata, definitivamente, aveva resistito tanto, da quando, bambina, le davano botte se scoprivano un quaderno, o, giovane donna, aveva visto andar via Jerzy verso il suo mondo gaje.

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