|
Stilisticamente e narrativamente, Il salario della paura è genio puro, incontaminato. È l’apoteosi dello “show, don’t tell”: non c’è una parola fuori posto, niente che sia raccontato a parole se può farlo l’immagine.
Un capolavoro asciuttissimo, rigoroso, persino sperimentale per come elimina tutto il grasso in favore di una narrazione snella, scattante e chirurgica, puntellata da una tesissima colonna sonora elettronica che ricorda il sound su cui John Carpenter avrebbe costruito un’intera carriera.
Friedkin sa quando essere introspettivo e concentrarsi su gesti e sguardi, e quando invece alzare il volume con sequenze spettacolari capaci di togliere il fiato.
Spesso sentiamo dire che ogni storia è un viaggio e in questo il road movie è la quintessenza della storia di crescita e maturazione. Il salario della paura, però, sovverte anche questo schema: alla fine chi non è morto non è certamente cambiato, né migliorato, e l’apoteosi del viaggio è in realtà la più profonda discesa in un incubo lisergico e allucinato che termina con un letterale fuoco gigante da spegnere.
Il fatto che Friedkin giri tutto questo con il suo stile scarno e realistico, con inserti di documentario e con assolutamente zero concessioni nei confronti del gusto del pubblico, è allo stesso tempo encomiabile e totalmente folle. Ma è uno dei motivi per cui amiamo Friedkin e per cui non si può non amare Il salario della paura.
[+] lascia un commento a felicity »
[ - ] lascia un commento a felicity »
|