Il tempo trascorre inesorabile, le vite si spengono com’è naturale e, nell’approssimarsi della fine, sgorgano riflessioni come quelle che arricchiscono “Leonora addio”. Un film strano, diseguale, composto da due parti legate tra loro da un filo esilissimo: la prima, ben più estesa, relativa al peregrinare delle ceneri di Luigi Pirandello, struggente nel bianco e nero splendidamente fotografato, la seconda, ispirata al suo racconto “Il chiodo”, ben più breve e tutt’altro che convincente nella struttura narrativa e negli accesi colori. Entrambe però hanno la funzione di sollecitare una meditazione sul grande mistero della morte, non già nella prospettiva dell’aldilà, bensì “dell’aldiqua”, del rapporto tra i vivi e gli invisibili, tra coloro che rimangono e quelli che sono andati via. Paolo Taviani infatti dedica il film allo scomparso fratello Vittorio, compagno di tante belle storie cinematografiche, dallo stupendo “La notte di San Lorenzo” (il loro più grande capolavoro) fino all’ultimo bellissimo ma sottovalutato “Una questione privata” (in cui vi è una delle più folgoranti dichiarazioni d’amore del Cinema: “Fulvia, splendore”). E la dedica, all’inizio del film, è proprio personale, non a caratteri di stampa, ma scritta a mano, proprio per essere ancora più intima e vera. E così il peregrinare delle ceneri di Pirandello (fatto realmente accaduto, il Maestro della letteratura ebbe definitiva sepoltura parecchi anni dopo la sua morte) diventa il pretesto per una sentita carrellata sulla nostra Storia e su ciò che eravamo: il fascismo, le fosse Ardeatine, la Resistenza, la condanna a morte del Prefetto Caruso, la terza classe, i treni a vapore, il tressette col morto, le superstizioni medievali e gli scongiuri, i balli da oltreoceano, le assolate campagne disseminate di paesini, i funerali visti dal balcone, gli universitari con i cappelli a punta e i preti che hanno l’ultima parola, i contadini con le facce cotte dal sole, il tutto arricchito da citazioni e rimandi a “Stromboli – Terra di Dio” di Rossellini (il reduce che sposa la tedesca e la porta nella propria isola) fino a “Baaria” di Tornatore (la roccia a tre punte). Paolo Taviani racconta l’Italia di ieri e lo fa con leggerezza, mescolando pochi dialoghi e tanta intimità, lasciando parlare le immagini in bianco e nero e accompagnando il tutto con un sorriso leggero, come di chi, acquisita col tanto tempo trascorso la saggezza, riesce a scorgere il lato più vero e profondo delle cose che ne hanno riguardato la vita. La seconda parte, “Il Chiodo”, ben più breve, non vale affatto la prima, ma ci restituisce un’immagine comunque bella, quella del giovane che, fino alla vecchiaia torna a far visita alla tomba della ragazzina dai capelli rossi che aveva ucciso quando era ragazzo “perché il chiodo era caduto apposta”. Quel giovane/anziano forse è Paolo, che dopo una lunghissima vita artistica con il fratello Vittorio, continuerà a vivere nel ricordo e non mancherà di fargli visita sempre, fino alla fine.
[+] lascia un commento a thomas »
[ - ] lascia un commento a thomas »
|