
Se la Storia Palestinese è trattenuta nella rimozione e nell’oblio, le storie palestinesi non possono che essere un (sotto)prodotto delle dinamiche di potere e controllo a cui vengono esposti ogni giorno da oramai quasi un secolo. Scandar Copti non pone tutto sullo stesso piano, non lo può fare, ma problematizza e rilancia ogni cosa. Dal 3 luglio al cinema.
di Luigi Coluccio
Quanta Storia c’è tra Purim – quando si festeggia la salvezza del popolo ebraico dallo sterminio persiano – e Yom HaZikaron – il giorno del ricordo per i caduti dello stato di Israele –? Così tanta da avere anche il suo converso, tant’è che il giorno dopo si tengono, rispettivamente, Shushan Purim per gli ebrei dentro le città storiche circondate da mura, e Yom HaAtzmaut durante il quale si ricorda la nascita della nazione il 14 maggio del 1948. Una Storia che è tante Storie, tutte canonizzate, tramandate e scolarizzate. Tranne quella palestinese.
È così che parte, si chiude, e in mezzo sgomita e annaspa, Happy Holidays di Scandar Copti, proprio come ne La testimone di Nader Saeivar: lì era il mese islamico di Muharram, uno dei momenti di ragionamento e raccoglimento maggiori della confessione sciita, che faceva da palinsesto alle vicende della professoressa Tarlan e del suo tentativo di fare la cosa giusta nel sistema-Iran di oggi; qui invece si va da marzo ad aprile, da Purim a Yom HaZikaron appunto, dove le parabole dei protagonisti del film trovano (r)espressione unicamente all’interno del sistema-Israele di oggi.
Perché, ci dice il regista Copti, che su questo piano espressivo ha investito così tanto da vincere il premio per la sceneggiatura nella sezione Orizzonti di Venezia ’24 – oltre a trionfare a Marrakech e Thessaloniki come miglior film –, se la Storia Palestinese, con la maiuscola, è trattenuta nella rimozione e nell’oblio, le storie palestinesi, con la minuscola, non possono che essere un (sotto)prodotto delle dinamiche di potere, controllo e rappresentazione a cui vengono esposti ogni giorno, tutti i giorni, da oramai quasi un secolo.
Non c’è nulla dentro Happy Holidays, siano i luoghi, gli eventi o le persone, che non paghino il prezzo di, semplicemente, “esistere” all’interno di una società divisa sulla linea dell’etnia e della religione ma cucita insieme a forza dalla totale militarizzazione, dove ogni rapporto umano diventa naturalmente violento, predatorio, utilitarista: lo dimostrano con dolore e affanno le storie di Rami e Sherley, lui arabo e lei ebrea, osteggiati per aspettare un bambino; di Fifi, sorella di Rami, corteggiata dall’amico di lui Walid e alla ricerca della propria libertà personale; di Miri, sorella di Shirley, stretta tra la tradizione e l’amore per la famiglia; di Hanan, madre di Rami e Fifi, alle prese con l’apparenza del suo status e il crollo di ogni certezza.
Sono vicende apparentemente semplici – una gravidanza, l’emancipazione, la stabilità – che però in quel pezzo di terra costringono tutti e tutte a rispondere con la sordità della paura e il vuoto della radicalizzazione, ma, ed è qui l’affondo esponenziale di Copti, la società israeliana è lo specchio frantumato di tutto il resto, perché oltre a discriminare per la razza criminalizza per il genere, sopra la ghettizzazione per la fede c’è la marginalizzazione per la tradizione: se, insomma, non porti anche a compimento l’autodeterminazione femminile, l’emancipazione dei corpi, l’affrancamento dal capitalismo, tutto tornerà come prima. Da questo angolo, non c’è niente di diverso tra le scelte dell’ebrea Miri e della palestinese Hanan, tutto il resto però sì, perché Miri, la sua famiglia, il suo mondo, sono gli unici a potersi permettere di dire lungo il film “abbiamo tutta la vita davanti”.
Scandar Copti non pone tutto sullo stesso piano, non lo può fare, ma problematizza e rilancia ogni cosa, l’ha sempre fatto fin dal suo lungo di esordio, Ajami, co-diretto assieme all’israeliano Yaron Shani, che nel 2009 vinse la Caméra d’Ora a Cannes ma soprattutto fu al centro di feroci polemiche quando ottenne la candidatura come miglior film internazionale e Copti dichiarò che nonostante la produzione fosse statale non rappresentasse un film di Israele. Ajami, però, nel raccontare una matassa di vicende dell’omonimo quartiere di Giaffa, mostrava come la gentrificazione della città – oramai appendice di Tel Aviv – nascondesse un preciso piano per scacciare le ultime enclave palestinesi presenti in quel territorio.
Sfruttamento, identità. Spazi, corpi. Violenza, rappresentazione. C’è tutto l’occidente moderno in Happy Holidays, in un ribaltamento quasi millimetrico dell’orientalismo saiddiano, e allora il non voler chiudere le storie del film è il non poterle chiudere, e l’unica cosa che rimane, in un altro ribaltamento della prospettiva funerea e terminale che spesso si associa alla Palestina, in tutto simile al finale ipnotico di Il paradiso probabilmente, è la camminata nella sequenza conclusiva quando tutti sono immobili ma una soltanto no.